Di Fabio Massimo Nicosia
La vicenda greca suggerisce alcune riflessioni. La prima è che le istituzioni europee e la Troika trattano la Grecia come una holding tratta una sua controllata, e valuta se dismetterla o riposizionarla, ridimensionata, in qualche modo sul mercato.
Succede tuttavia che la Grecia è titolare di assets non rimuovibili, i beni demaniali e immobiliari anzitutto, sicché la sua liquidazione trova ostacoli superabili solo trasferendo la titolarità di quei beni, ovvero il loro impegno in garanzia dei supposti crediti, in una nuova forma di “schiavitù per debiti”, sicché il popolo greco si vede sottratti –questa è l’intenzione- quei beni formidabili di cui è titolare.
Lungi da noi fare l’apologia di alcun “sovranismo”.
Qui la questione è diversa, assistiamo cioè a uno scontro tra, da una parte, l’idiocrazia, ossia il dominio dei grandi “privati” che presiedono al mondo finanziario e monetario, oltre che a molto del resto, e, dall’altra parte, il territorio sul quale il popolo vive nella sua concretezza materiale.
Qui la questione è diversa, assistiamo cioè a uno scontro tra, da una parte, l’idiocrazia, ossia il dominio dei grandi “privati” che presiedono al mondo finanziario e monetario, oltre che a molto del resto, e, dall’altra parte, il territorio sul quale il popolo vive nella sua concretezza materiale.
L’idiocrazia finanziaria si nutre infatti di nulla, di mera virtualità: tanto sono alti i grattacieli delle sedi degli istituti di credito, quanto è il nulla che vi si trova all’interno: numeri in un computer, pura convenzione, priva di alcun effettivo valore che non sia fondato su una mistificazione, ossia che ciò che è virtuale possa essere anche “limitato”, nonostante la contraddizione che nol consente.
Ed è in nome di questi “numeri” immateriali che l’élite al potere vuole impadronirsi del territorio del popolo, territorio che, non si sa perché, nella contabilità interna e internazionale non “vale” nulla, come abbiamo ripetutamente sottolineato nella nostra polemica in ordine alla mancata contabilizzazione nei bilanci pubblici di quel valore; mentre, sempre non si sa perché, i numeri digitati in un terminale “varrebbero” tutto.
E ciò in una situazione di devastazione ideale e culturale, dacché i detentori di quel potere virtuale sono tacciati di “liberismo”, laddove invece si tratta di volgari monopolisti: monopolisti della moneta e della finanza, come si vede.
Queste élites finanziarie, che i critici di sinistra più ingenui continuano appunto a tacciare di “liberismo”, tutto sono infatti meno che “liberisti”: di certo non è loro interesse, almeno per ora, a meno che non siano assaliti improvvisamente dal sentimento dei loro presunti ideali, farsi cantori della denazionalizzazione della moneta di von Hayek, né tampoco del libero credito di un Proudhon, di un Tucker, di uno Spooner, né men che meno di un Warren. E quindi la discussione risulta totalmente falsata.
Il ritorno alle monete nazionali non sarebbe la soluzione, dato che si tratterebbe solo della giustapposizione dei diversi monopoli, anche se si potrebbe quantomeno proporre, per stare alla parte minimale della proposta di Hayek, che le diverse monete nazionali possano liberamente circolare nei diversi paesi, dando vita così a un certo grado di concorrenza da questo punto di vista.
Forse si potrebbe immaginare di trasformare almeno la moneta “unica” in moneta “comune” ma non esclusiva, affiancandola e non sostituendola con monete nazionali fondate sulla ricchezza materiale di ciascun paese (groundstandard), a loro volta in concorrenza con monete virtuali private come il bitcoin (proposta imperfetta, in quanto ancora legata al falso mito della scarsità monetaria come presunta essenza intrinseca dell’idea del denaro), o anche comunitarie, locali, territoriali, che già esistono, ma che vanno ulteriormente incentivate.
La pluralità di monete, infatti, è una modalità di redistribuzione del potere d’acquisto. E’ agevole comprenderne la ragione. Immaginiamo che in una società esista solo una moneta, l’oro: Ii detentori di oro sarebbero monopolisti od oligopolisti del potere d’acquisto.
Immaginiamo invece che si affermi il principio della pluralità del conio, se non proprio della sua illimitata libertà, come la poesia libertaria imporrebbe. Orbene, a quel punto i detentori di nuova moneta sarebbero a propria volta titolari di potere d’acquisto, diminuendo simultaneamente quello degli ex monopolisti od oligopolisti: ecco perché i potenti agitano sempre, anche a sproposito, il fantasma dell’inflazione.
Ma un conto è l’inflazione dell’unica moneta consentita, altra cosa sarebbe che a questa se ne affiancassero altre, sicché la prima fosse ridimensionata. Se così non fosse, anche la scoperta di nuove miniere d’oro comporterebbe inflazione, così come sarebbe stata “inflazionistica” la fondazione del bitcoin rispetto alla situazione preesistente, ovvero la creazione di bitcoins alternativi al primo.
Il fatto è che il monopolio monetario, quasi di più ormai di quello di giustizia e polizia, consente come detto il predominio sui popoli, e quindi non v’è incentivo per i suoi titolari ad abbandonarlo, per quanto li si dipinga come campioni dell’inesistente “liberismo”, inesistente in molti settori per motivi di interesse particolare, ma soprattutto in questo, per motivi di interesse ben più radicato, ossia di puro e semplice potere e predominio.
E allora la discussione può ben proseguire, ma a condizione che ne siano chiari i presupposti analitici, e non si prendano costantemente lucciole per lanterne, come siamo abituati a constatare nella presente fase.
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