Di Fabio Massimo Nicosia
Mentre Tocqueville descriveva l’open society U.S.A., la sua democrazia partecipata, il suo libero commercio
e le sue solide istituzioni, Marx preconizzava l’imminente crollo del
capitalismo, generalizzando arbitrariamente alcune osservazioni
parziali, dedicando agli U.S.A. (che invece suscitavano l’entusiasmo di
Bakunin) solo qualche sporadico cenno.
Com’è
noto, il “Manifesto” comunista muoveva dall’affermazione che la storia
sarebbe sempre “lotta di classe”. Ora, l’affermazione può essere o no
valida, a seconda del concetto di “classe” che si accolga.
Probabilmente, seguendo i principi dell’individualismo metodologico,
occorrerebbe arrivare alla conclusione che le classi sono infinite,
essendo infinite le pulsioni individuali e gli interessi, sicché “lotta
di classe” non significherebbe altro che dinamica sociale, destinata a
risolversi in un sistema di mercato, nel quale ognuno facesse valere
quelle pulsioni e quegli interessi nei confronti degli altri.
Naturalmente,
non è questa l’accezione di “classe” di Marx. Egli infatti egli, dopo
aver rapidamente passato in rassegna i rapporti di potere del passato,
giunge alla conclusione che con l’affermarsi della borghesia le cose
sono cambiate, e il conflitto si polarizza, tra i borghesi stessi e il
proletariato, nei termini stretti dei cosiddetti “rapporti di
produzione”. Scrivere la storia, a questo punto, diviene la descrizione
dell’evolversi di questi rapporti di produzione, con la previsione che,
concentrandosi il capitale in poche mani e impoverendosi sempre di più i
proletari, questi a un certo punto matureranno la propria coscienza
rivoluzionaria, si impadroniranno del potere e, abolendo le classi,
determineranno l’estinzione di quella sovrastruttura dei rapporti di
produzione che è lo Stato. A questo punto, nella fase superiore del
comunismo, si uscirà dalla preistoria e si entrerà finalmente nella
storia, dove ognuno darà secondo le proprie capacità, e riceverà secondo
i propri bisogni (questo in realtà Marx lo scrive nella “Critica al
programma di Gotha”).
C’è
qualcosa, anzi molto, che non funziona in questo “arrivano i nostri”.
Anzitutto la questione dei rapporti di produzione, che costituirebbero
la “struttura”, laddove tutto ciò che è giuridico, politico, ideale,
culturale, artistico, etc., rientrerebbe nella “sovrastruttura”.
Si
noti, sia detto di passata, che ad esempio Gramsci include nella
struttura molte delle vicende che per Marx sarebbero sovrastruttura,
finendo con il rendere pleonastica la distinzione.
Ma
per quel che a noi più interessa, va detto che Marx entra in
contraddizione con sé stesso in almeno due momenti fondamentali: nella
fase della nascita del capitalismo, e in quella della sua fine.
Nel
momento della nascita (Marx si riferisce sostanzialmente
all’Inghilterra, ma parla, al capitolo XXIV del Libro I del “Capitale”,
di “accumulazione originaria”, sicché dobbiamo ritenere che il suo sia
un approccio filosofico generale), il filosofo di Treviri riconosce che
il fenomeno è dovuto sostanzialmente a vicende politico-giuridiche,
rappresentate dal fenomeno delle enclosures, le arbitrarie chiusure e
“privatizzazioni” forzose di fondi comuni, nonché dalle feroci leggi sul
vagabondaggio e sulla mendicità, che, come ha ricordato anche Foucault
nella “Storia della follia”, creavano mano d’opera a infimo prezzo,
pronta a essere sfruttata dal nascente “capitalismo”. In altri termini,
persone che mai si sarebbero sognate di andare a lavorare in fabbriche
infami e indegne, a ritmi di lavoro da schiavi, hanno accettato ciò, non
già per una libera scelta di mercato, non già quindi per ragioni
squisitamente “economiche”, ma perché costrette da una legge dello
Stato, che impediva loro scelte di vita alternative, a pena della morte,
del marchio, della mutilazione, etc.
Altrettanto
incorre in contraddizione Marx (e altrettanto Lenin), a proposito della
fine del capitalismo, a sua volta non frutto della naturale evoluzione
del medesimo, ma come frutto di un formidabile atto collettivo politico e
di forza, come appunto la rivoluzione. Le cose non cambiano se al posto
della rivoluzione si pongono, come fa l’ultimo Engels, le “riforme”
dall’alto, che sono pur sempre un fatto politico e giuridico, dunque di
forza, e non già un fatto prettamente “economico”, avente a che fare con
i rapporti di produzione in sé medesimi considerati.
D’altra
parte, ritenere la primazia dell’economico, alla luce delle più recenti
acquisizioni della scienza economica stessa, vuol dire tutto ma non
vuol dire nulla, dato che, da Lionel Robbins in poi, per “economia” non
si ritiene altro che l’allocazione di risorse scarse in vista del
perseguimento dei propri obiettivi. Ma la prima delle risorse scarse, a
parte il tempo, è l’energia umana, la sua forza; quindi se questa è
oggetto di valutazione economica in tale accezione, la distinzione perde
di peso e di pregnante significato. E Gary Becker ha mostrato che tale
“metodo economico” può applicarsi a qualunque genere di attività umana,
non solo a quelle della produzione di beni e servizi, nell’accezione
tradizionalmente oggetto dell’”economia”: alla pena, alla famiglia, alla
tossicodipendenza, etc.
V’è
poi la questione del denaro. Secondo Marx, mentre il commerciante
medievale produceva merce per venderla al mercato, ricavare denaro e
comprare nuova merce (M-D-M), il capitalista moderno investe denaro per
vendere merce e acquisire nuovo denaro (D-M-D). Ma allora, vien da
chiedersi, che cosa se ne fa il capitalista di questo denaro accumulato?
Se compra altra merce, la distinzione con il mercante medievale viene
meno. Si dirà che il capitalista moderno investe in capitale fisso
(macchinari), o che più in generale lo accumula. Ma, ancora, che cosa
gli serve a questo punto accumulare tanto denaro senza investirlo?
Perché alcuni accumulano migliaia di miliardi, che non potrebbero
spendere mai, nemmeno comprando decine di ville o di arei personali,
solo per apparire nelle classifiche di Forbes?
Evidentemente
perché il denaro dà potere e prestigio, il denaro abbondantissimo dà
carisma anche se non lo si spende, anzi, soprattutto se non lo si
spende. Ecco allora che, a questo punto, il denaro non è fine come in
D-M-D, ma comunque mezzo, anche se non mezzo per acquisire ulteriori
beni materiali, ma mezzo per acquisire potere sociale. Il denaro, quando
è molto, è a sua volta una species del genus “potere”.
E
ancora: mentre Jevons, Menger e Walras elaboravano le nuove teorie
marginaliste e soggettivistiche del valore, divenute la nuova e
definitiva ortodossia, Marx ancora si baloccava con la metafisica del
valore-lavoro, scrivendo migliaia di pagine, oggi del tutto inutili, di
derivazione ricardiana. La circostanza non è a sua volta irrilevante ai
fini del nostro argomento. Infatti, Marx ricavava dalla teoria del
valore-lavoro la dottrina del plus-valore (già esposta da Proudhon in
altri e più persuasivi termini, nella configurazione del diritto di
albinaggio, “tributo” che il proprietario impone al non proprietario,
impossessandosi del surplus proveniente dalla capacità combinatoria
dell’organizzazione operaia: si pensi al famoso esempio dell’operaio che
in duecento ore non può sollevare un obelisco, mentre duecento operai
lo fanno in un ora, argomento interessante che non tiene però conto
dell’autonoma attività di coordinamento dell’imprenditore, che in
qualche modo dovrà pure essere compensata), e quindi dello sfruttamento.
Ma
lo sfruttamento non consegue al mero atto di un libero contratto di
lavoro sul mercato, che fosse stipulato sulla base di effettive
preferenze del lavoratore in una situazione nella quale egli fosse
libero di scegliere (il che non avveniva certo in situazione di
“accumulazione originaria”, come si è visto), ma consegue appunto al
fatto che il lavoratore è stato autoritariamente deprivato dallo Stato e
dal potere dei suoi diritti originari sulla terra, che lo costringono
ad accettare dal punto di vista interno un sistema a lui estraneo.
Non
solo. Marx preconizzava il crollo del capitalismo sulla base di una
teoria delle concentrazioni di capitale del tutto erronea alla luce
dell’esperienza storica e della più moderna analisi economica.
Come
ricorda David Friedman, si distinguono normalmente tre tipi di
monopolio: il monopolio naturale, quello artificiale e quello di Stato,
che egli considera quello di gran lunga più importante.
Quanto al primo, rileviamo quanto segue:
a)
Il monopolio naturale non è un proprium del capitalismo, ma è tale in
ogni tipo di società: l’autostrada del sole sarebbe monopolista del suo
percorso in anarchia, nel socialismo, nel comunismo, etc.;
b) A
volte un monopolio naturale è tale solo per arretratezza tecnologica o
giuridica: ad esempio, le ferrovie, un tempo considerate monopolio
naturale, sono oggi oggetto di una disciplina giuridica per la quale la
linea ferroviaria è scorporata dal servizio, sicché quest’ultimo può
essere reso da imprese in concorrenza;
c)
Un monopolio naturale può essere dato in appalto con aste per aree
omogenee, sicché viene instaurata una pur imperfetta competizione anche
in tale ambito;
d)
Quand’anche le ferrovie, per stare all’esempio, costituissero un
monopolio naturale, esse non sarebbero un monopolio tout court, dato che
patirebbero comunque la concorrenza delle automobili, degli aerei,
etc., nell’ambito della cosiddetta concorrenza intersettoriale, che è
istituto sempre operante, quale che sia il settore di riferimento.
Quanto
al monopolio artificiale, che è quello al quale a ben vedere fa più
riferimento Marx (concentrazione di capitale come frutto dell’evoluzione
spontanea del capitalismo) Friedman invoca a proprio sostegno le parole
di uno storiografo socialista, Gabriel Kolko. Secondo Kolko, alla fine
dell’ottocento gli uomini d’affari erano convinti che il futuro fosse
nelle mani della grande dimensione come nella creazione di cartelli, ma
si sbagliavano. Le grandi organizzazioni nate per controllare i mercati e
ridurre i costi si sono rivelate quasi sempre dei fallimenti, mentre i
concorrenti di piccole dimensioni si rivelavano più efficienti e più
capaci di produrre profitti. E così, mentre si ritiene comunemente che
le commissioni di controllo tipo antitrust siano nate per fermare i
monopoli, esse hanno avuto la funzione storicamente opposta, di essere
invocate dai monopolisti per arginare la concorrenza. Senza il supporto
dello Stato, i grandi trust non si sarebbero quindi venuti a formare, o
almeno a consolidare. Quanto ai cartelli, occorre poi dire che essi sono
intrinsecamente instabili, perché ciascun partecipante ha interesse a
defezionare all’accordo e a stabilire condizioni concorrenziali rispetto
ai partners.
Per
quel che riguarda poi i monopoli di Stato, Friedman ricorda l’esempio
del servizio postale negli U.S.A., fa una rassegna dei privilegi
corporativi legati alla necessaria iscrizione agli albi professionali,
ma sembra sottovalutare quello che invece è per noi oggi il più
rilevante tipo di monopolio di derivazione statuale, quello
riconducibile, in chiave moderna, alle già concessioni regie: brevetti,
copyright e marchi.
Di
solito gli avversari del capitalismo si avventano contro tali istituti,
non avvedendosi che essi sono istituti squisitamente statalisti, dato
che nel libero mercato nessuno avrebbe la forza di imporre, con la forza
appunto, monopoli su idee, su invenzioni, su progetti o disegni (si
vedano in proposito le preveggenti osservazioni di Benjamin Tucker).
Ora,
sull’erronea base della natura di tendenziale concentrazione del
capitale, Marx prevedeva che i ceti proletari si sarebbero
progressivamente immiseriti, ma ciò si è rivelato errato alla luce
dell’esperienza dei fatti.
Il
revisionismo, quello anarchico di Francesco Saverio Merlino prima, e
quello di derivazione marxista di Eduard Bernstein poi, ha dimostrato
che questo polarizzarsi di classi non corrispondeva alla realtà storica,
dato il rafforzarsi rapido dei ceti intermedi (piccoli proprietari
agrari, piccoli commercianti, miglioramento delle condizioni operaie,
etc.). Il fatto che ciò possa essere stato il frutto di determinate
politiche non fa venir meno la critica, dato che il profeta Marx avrebbe
potuto anche “prevedere” che, a fronte di un impoverimento
generalizzato ci sarebbe potuto essere una reazione di lenimento delle
condizioni del proletariato, così come noi oggi “prevediamo” che, a
fronte della disoccupazione crescente provocata dall’automazione,
assisteremo a nuove politiche di protezione, del tipo di quelle che noi
illustreremo parlando nei prossimi capitoli della rendita di esistenza.
Un'altra
incomprensione di Marx sui meccanismi autonomi del capitalismo, altro
esempio della sua incapacità analitica di discernere ciò che è “mercato”
da ciò che è “Stato”, riguarda la dottrina delle crisi ricorrenti, che
sarebbe intrinseca alle modalità di funzionamento del sistema
capitalistico. Anche a tale proposito sono emerse teorie che hanno
falsificato (per quanto, come sostiene Feyerabend, una teoria non è mai
falsificata definitivamente) quella dottrina. Ci riferiamo alla teoria
austriaca del ciclo economico, elaborata da von Mises e dalla scuola
austriaca, secondo la quale le crisi cicliche sarebbero dovute a vicende
relative all’espansione e alla successiva contrazione del credito, con
il susseguirsi di alterazioni dei tassi di interesse con conseguenti
effetti distorsivi nella produzione.
Ora,
non entriamo nel dettaglio di questa discussione tecnica, né
condividiamo le conclusioni della scuola austriaca in ordine alla
necessità, che ha a sua volta carattere monopolistico od oligopolistico,
del gold standard (la famosa goldmania degli austriaci). Che il credito
si espanda, direbbe Montesquieu, è nella “natura della cosa”. Se io
verso 1 euro in un conto corrente divento creditore di 1 euro dalla
banca. Se la banca presta quell’euro a Mario diviene a sua volta
creditrice di 1 euro da Mario, sicché dall’euro iniziale, ne abbiamo ora
3! Ma quel che ci interessa rilevare, ai nostri fini, è che la teoria
austriaca del ciclo mette in luce come le crisi, le depressioni, le
recessioni, siano figlie di una vicenda monetaria: ma la moneta nel
nostro sistema non è un istituto di mercato, ma è un monopolio statuale.
Tutte
le vicende del credito sono frutto perciò di un’amministrazione
discrezionale della moneta, e non hanno nulla a che vedere con il
mercato e la concorrenza. Ciò al di là di ogni giudizio di valore.
Ossia, si potrà anche sostenere che la moneta sia inevitabilmente un
istituto di Stato (il che non crediamo, basti pensare ai bitcoin), ma
l’importante è saperne trarre le conseguenze. Mentre Marx confonde
sistematicamente l’elemento Stato con quello mercato, come si è detto;
mentre laddove il capitalismo fosse stato fin dall’origine un
anarco-capitalismo (come sembra a volte dalla lettura di Marx), il che
non è mai stato, allo stesso si sarebbe affiancato sin dall’origine un
anarco-sindacalismo, non godendo i capitalisti della protezione
dell’apparato statale, e la storia sarebbe stata sin dall’origine
diversa.
Alla
comprensione di ciò ostava la convinzione di Marx che lo Stato, sotto
il capitalismo, rappresentasse nulla di più che il comitato d’affari
della borghesia, sfuggendogli totalmente il carattere autonomo della
dimensione statuale, il che ha contribuito anche a non fargli prevedere
le degenerazioni burocratiche della cosiddetta dittatura del
proletariato, dall’integrale nazionalizzazione dei beni di produzione,
previste invece da Bakunin, il quale aveva ben compreso come la
concentrazione nelle stesse mani del potere politico e del potere
economico avrebbe dato vita alla più feroce delle tirannie (80 milioni
di morti in due tra U.R.S.S. e Cina Popolare di Mao), poi ben analizzate
da Bruno Rizzi, Cornelius Castoriadis e Ignazio Silone.
Altre
considerazioni sull’inadeguatezza della formuletta
struttura/sovrastruttura e sulla presunta primazia logica dei rapporti
di produzione su quelli giuridici e politici. Si pensi all’istituto
contrattuale: il contratto è istituto universale, di tutte le epoche, si
ritrova nei Veda come nell’antico Testamento, come del resto la
proprietà privata, e nessuno può dire che si tratti di una mera
sovrastruttura del capitalismo. Anche nel comunismo più libertario ci
saranno “contratti”, dato che le persone, anche vigendo il motto “da
ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”
(che fu coniato ben prima di Marx), saranno sempre libere di concordare
prestazioni di qualunque tipo tra di loro.
Lo
stesso vale per donazioni e atti di cortesia, previsti dal codice
civile, e valide in ogni epoca e in ogni struttura sociale. Si pensi poi
alla questione del diritto dell’eredità, che per Marx era questione
marginale, mentre invece occupa tanto spazio nell’analisi, pur da
versanti opposti, in Tocqueville e in Bakunin.
Che
poi i rapporti di produzione e il mero potere economico non
costituiscano sempre la molla dell’azione umana è dimostrata dall’arte e
dalla cultura. Nessuno potrebbe sostenere, ad esempio, che Dante ha
scritto la Divina Commedia per diventare ricco, semmai per avere
prestigio, reputazione, a loro volta suscettibili di analisi economica
secondo il modello Gary Becker, ma che non hanno nulla a che fare con i
rapporti di produzione.
Ma
che cos’è oggi un mezzo di produzione? Una mente, un telefono, un
computer, che non si negano a nessuno (anche se le menti possono
differire per capacità), mentre il grande capitale si giova del supporto
statale, attraverso le concessioni di monopoli, i brevetti, i
copyright, le politiche di ricostruzione bellica, le grandi opere
pubbliche, tutti istituti statalistici, che non hanno nulla a che fare
con il mercato correttamente inteso, come vedremo trattando
dell’”idiocrazia”
E
poi ancora il femminismo: i marxisti più evoluti riconoscono che il
femminismo ha rappresentato una contraddizione nuova rispetto alla
contraddizione economica fondamentale, ma si tratta di un approccio
insufficiente; basti pensare che l’adulterio femminile è stato
penalizzato in pressoché tutte le culture fino a tempi recenti,
indipendentemente dai rapporti di produzione concretamente inveratisi
nelle diverse fasi storiche. Quell’istituto aveva dunque un fondamento
ideale, culturale, religioso, nel costume, nel sentimento, forse nella
biologia, almeno come intesa sino a poco tempo fa, ma evidentemente non,
o non abbastanza, nei rapporti di produzione.
Riassumendo,
emergono i sette errori fondamentali, i sette “peccati capitali” della
teoria sociale marxiana, peraltro tutti riconducibili a una erronea
valutazione e sottovalutazione del ruolo dello Stato, del potere e del
diritto nel consesso sociale. Non ci soffermiamo qui sull’aspetto più
trivialmente messianico della sua dottrina, quello deterministico e
finalistico, che è stato da più parti evidenziato, ma ci limitiamo agli
aspetti che pretenderebbero maggiore statuto scientifico, e che forse
popperianamente ne hanno, se è vero che sono stati falsificati
dall’esperienza (ma in realtà non solo dall’esperienza, ma anche dal
mero confronto di teorie, secondo un modello già evidenziato da
Feyerabend).
a)
Erronea attribuzione di centralità all’aspetto “economico” del possesso
dei mezzi di produzione, come fonte fondamentale delle contraddizioni
sociali, ignorando che tale possesso è solo una species del genus
dominio, e quindi ignoranza della centralità del potere e della lotta di
potere come fattore strutturale fondamentale della storia e della
società;
b)
Erronea analisi in ordine alla prospettiva di un accentramento in poche
mani dei fattori di produzione come effetto dello sviluppo monopolistico
del capitalismo, ignorando che, quando un tale effetto si dà, ciò è
frutto dell’interferenza statuale e del diritto, e non mai della
concorrenza in sé considerata. Marx, invero, non pare mai in grado di
fornire una visione analitica del fenomeno “capitalismo” che sia in
grado di depurare questo dalla contestuale presenza dello Stato come
giocatore autonomo, in condizione di inquinare quello che sarebbe
l’andamento di un mercato che fosse effettivamente, come si denuncia
erratamente, “lasciato a sé stesso”;
c)
Erronea configurazione delle cosiddette crisi periodiche, a loro volta
considerate frutto dello sviluppo spontaneo del capitalismo, ignorandosi
che esse sono conseguenze di fluttuazioni del credito in regime di
monopolio discrezionale della moneta, quindi esterno a quello che si
vorrebbe fosse, secondo Marx e i classici, il “capitalismo”;
d)
Erronea previsione in ordine all’imminente crollo del capitalismo, che
sarebbe frutto inevitabile dell’impoverimento del proletariato e
conseguente sua ribellione. Del resto Marx riteneva che l’affermarsi del
macchinismo avrebbe reso gli operai semplici bruti esecutori, laddove
noi oggi intravvediamo che l’automazione condurrà puramente e
semplicemente all’abolizione del concetto stesso di lavoro salariato;
e)
Mancata previsione della circostanza che l’auspicata “dittatura del
proletariato” non avrebbe condotto all’estinzione dello Stato, ma al
rafforzamento dello stesso, dando vita alla più micidiale delle
oppressioni di classe conosciute, quella della “società burocratica”
(Castoriadis) dell’U.R.S.S. e della Repubblica Popolare Cinese di Mao.
Anche qui si tratta della mancanza di capacità di analisi su come
funziona uno Stato; e non si dica che ciò è frutto dell’epoca, perché
nello stesso tempo un Bakunin poteva esattamente prevedere che cosa
sarebbe avvenuto;
f)
Erroneità della teoria metafisica del valore-lavoro, ampiamente
superata, vivente Marx, dal nuovo paradigma marginalista e
soggettivista, con conseguente erroneità della dottrina del plus-valore e
dei fondamenti dell’istituto dello sfruttamento;
g)
Inadeguatezza della teoria della moneta, ancorata alla visione scontata
del suo carattere di monopolio statale, quando Menger già ne illustrava
il carattere di scaturigine spontanea e di mercato. Ed è singolare che
un critico del capitalismo come Marx non si avvedesse che l’istituto
cardine del capitalismo, la moneta appunto, non fosse a sua volta
nell’attualità un frutto del capitalismo e del mercato, ma si trattasse
di un’istituzione monopolistica della trascurata istituzione Stato.
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