martedì 25 dicembre 2018

Buon Natale

Buon Natale
 
Feliz Navidad
 
Joyeux Noël
 
Merry Christmas
 
Natale hilare
 
Feliĉan Kristnaskon
 
Καλά Χριστούγεννα
 
חג מולד שמח
 
عيد ميلاد سعيد

mercoledì 28 febbraio 2018

Il reddito di cittadinanza

Sono per il reddito di cittadinanza. Per reddito di cittadinanza intendo proprio un reddito che venga dato al cittadino di un territorio, finché il principio non sia esteso a tutta la Terra, ed in quel caso diverrebbe reddito di esistenza. Il principio su cui mi baso è quello geoista, secondo il quale ogni persona ha il diritto ad accedere alle risorse della natura, senza le quali non possiamo fare nulla. Essendo tale diritto impraticabile nel senso diretto, dato che esse sono limitate, bisogna risarcire coloro che vengono esclusi dall'accesso ad esse ed il reddito di cittadinanza può essere tale risarcimento. Ciò che io intendo non mi sembra, quindi, che sia ciò che propone il M5S, che non mi pare faccia menzione del geoismo.
 
Essere cittadini di un luogo, arricchisce quel luogo. Perché se hai qualche metro quadro in un luogo deserto non ti vale nulla e se lo hai in un centro abitato vale molto di più? Il proprietario delle metrature nel centro urbano ha fatto qualcosa in più per avere quella differenza di ricchezza rispetto al proprietario di metrature della stessa dimensione in un luogo deserto?
 
Le risorse naturali sono limitate, scarse e già le troviamo ripartite e quindi, per quanto possa essere volenteroso, qualcuno rimane escluso dalla possibilità di appropriarsene. Se riconosciamo il principio che ognuno ha il diritto all'accesso alle risorse della natura, chi ne viene escluso deve essere, per lo meno, risarcito. Riconoscere un diritto a qualcuno significa che qualcun altro ha un obbligo. Abbiamo stabilito di tutelare la proprietà, giustissimamente. Tutelare la proprietà su qualcosa di qualcuno significa che tutti gli altri sono tenuti a non toccare tale proprietà, se non con il permesso del proprietario. Perché tutelare la proprietà e non il risarcimento per il fatto che non tutti, oggettivamente, possono essere proprietari relativamente alle risorse naturali? Se uno si accaparra di qualcosa che originariamente non era di nessuno ed esclude gli altri dal poterla avere, mi pare il minimo che li risarcisca.
 
Il diritto al reddito di cittadinanza lo vedo per chi vuole essere cittadino e non darei la cittadinanza a tutti, ma solo a chi vuole e riesce a competere sul mercato, attraverso, ad esempio, associazioni che contrattino tale diritto sul mercato con i proprietari, che se vogliono avere riconosciuto il loro diritto di proprietà, devono scendere a compromesso, contrattando con i non proprietari. Nulla di statalista, quindi, nella mia proposta, anzi, al contrario, mi sembra l'idea più in linea con la libertà economica e di mercato che esista. Il diritto al reddito di cittadinanza lo fondo su base geoista. Si tratta anche di qualcosa di pragmatico, per mantenere l'ordine, senza la quale l'ordine salta, non riuscendosi più a tutelare adeguatamente proprietà e persone, basandomi su: geoismo, georgismo e geolibertarismo. Il concetto di reddito di cittadinanza è di molto più antico rispetto alla proposta del M5S, che, anzi, reddito di cittadinanza non mi sembra.
 
Nel socialismo statalista dei regimi denominati "comunisti" nessuno poteva avere nulla se non lavorava ed anzi si obbligavano tutti a lavorare e spesso anche gli si imponeva un tipo di lavoro ben preciso. Ciò che ho in mente è chiaramente di tutt'altro tenore, anzi, proprio di segno opposto! Anch'io intendo socializzare la proprietà, ma in una maniera che rispetta ancor di più la proprietà individuale, paradossalmente! Di certo ciò che penso è tutt'altro che statalista! Ad oggi, purtroppo, vengono dati soldi pubblici a troppe cose che non dovrebbero essere affatto finanziate, a mio avviso. Dovremmo tagliare tanta ma proprio tanta roba e semplificherei anche il sistema fiscale in maniera radicale. C'è chi propone la flat tax, io addirittura sono per la sigle tax georgista. La mia idea sul reddito di cittadinanza si inserisce pienamente, inoltre, in una concezione dinamica dell'organizzazione sociale. La considero pienamente liberale anche nel senso gobettiano, per come capito Gobetti, del quale mi innamorai fin da ragazzo, leggendo la sua Rivoluzione Liberale.

martedì 6 febbraio 2018

Grande satyagraha dedicato a Marco Pannella

Ho scelto di partecipare al "Grande satyagraha dedicato a Marco Pannella" ed ho scelto di farlo seguendo i consigli di Laura Arconti, cioè, innanzi tutto, "non attraverso il digiuno, che sarebbe dannosissimo per un diabetico" (sue giuste parole). Seguendo il suo esempio, quindi, a partire da oggi, diffonderò informazione su questo satyagraha e sui suoi satyagrahi, in ogni modo che potrò. Mi unisco così a quanti chiedono, attraverso gli strumenti della nonviolenza, con il satyagraha, al governo di fare ciò che si è impegnato a fare, prima che finisca la legislatura! Il tempo stringe!
 
Seguirò anche il consiglio di Laura Arconti di scrivere a qualche direttore di giornale (non leggendone uno abitualmente ne sceglierò uno o più tra quelli che arrivano qui nelle edicole a me accessibili), spiegando i motivi del satyagraha e chiedendo di pubblicare la mia lettera. Sempre seguendo i consigli di Laura Arconti scriverò ad Aldo Masullo presso Il Mattino, per comunicargli che non digiunerò per motivi di salute, ma che partecipo comunque a mio modo al satyagraha e lo ringrazierò per ciò che scrive spesso sul Partito Radicale, chiedendogli di continuare a farlo.

sabato 3 febbraio 2018

Lettera aperta a Piergiorgio Odifreddi su comunismo e libero mercato

 
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Dialogo con un venditore d’almanacchi
 
Di Luigi Corvaglia
 
Lo ammetto. Ho simpatia per gli antipatici. Lo so, è un paradosso. Ma, sapete, rientrando nella categoria oggetto di tale etichettamento, mi sento affratellato a un particolare sottogruppo di  antipatici. Non quelli che si sono meritati tale definizione in virtù di caratteristiche fisiche, caratteriali o comportamentali, bensì quelli che stimolano nei più reazioni di fastidio a causa di una supposta tendenza a strafare dal punto di vista intellettuale. I famosi “tuttologi”. Questi, si dice, possono pretendere di sentenziare sui più svariati ambiti dello scibile solo grazie ad una cospicua dose di presunzione. È chiaro, per noi diversamente simpatici, che qui stia parlando l’invidia per le nostre esagerate virtù. Certo, qualcuno è più tuttologo degli altri, quindi più indisponente. Per farla breve, a me il “matematico impertinente” Piergiorgio Odifreddi è sempre stato molto simpatico. Il personaggio mostra, nella sua poliedricità rinascimentale, di saper maneggiare una gran quantità di conoscenze in ambiti che vanno dalla matematica – sua professione – alla fisica e alle altre scienze, ma anche alla logica, la letteratura, l’arte, la filosofia e la religione. In questo ultimo ambito, ad esempio, si è distinto quale divulgatore di concezioni ateiste dimostrandosi anche  attento esegeta della Bibbia.
Esiste però un problema. Infatti, i tuttologi di questa fattispecie hanno la tendenza a creare collegamenti trasversali fra quelle quattro o cinque materie in cui si muovono a menadito e altre che solo la prosopopea che li contraddistingue li illude di maneggiare. Agli adoratori della dea Ragione, infatti, capita talvolta di sovrastimare la quota di detta divina qualità che li pervade. Come nel dogma della transustanziazione (di cui il matematico indisponente spessa parla), sembra che il rituale dello studio scientifico permetta al prete razionalista di mutare, tramite la semplice introduzione di pochi elementi di positivismo, la substantia di qualunque sentenza per renderla “scientifica”, lasciandone però immutata la forma irrazionale. Bene, Odifreddi palesa perfettamente tale habitus in varie occasioni. Voglio qui soffermarmi su un suo scritto in cui tale pratica di imposizione delle mani dello scienziato pretende di dare incontrovertibile razionalità a quella che è la sua passione politica.
Ma come? Giustificare una passione con la ragione?! Sì. Esatto. Quando uno è cosí scienziato anche il sentimento è scientifico. Lo si vede benissimo in un suo articolo. Il lavoro in questione è datato, ma si ha ragione di credere che rispecchi ancora le opinioni dell’autore. Il titolo del sagace saggio è Capitalismo e comunismo. Da che parte sta la scienza?. La scienza non lo so, ma Odifreddi sta dalla parte dei rossi. Niente di male, sia chiaro. Ciò che invece mi sembra discutibile è la pretesa alchemica di trasformare in oro della logica alcune frattaglie concettuali di minor nobiltà. Una buona capacità cognitiva, però, non è la pietra filosofale. Fatto sta che per Odifreddi il comunismo è scientificamente validato e superiore a qualunque altra idea. Prima di passare ad esaminare gli esempi di tale logica, è utile notare che il primo a parlare di scientificità del marxismo fu lo stesso Marx che mostrava appunto sufficienza nei confronti del “socialismo utopistico” degli anarchici. Sennonché la pretesa scientificità del paradigma marxista era basata su concetti illogici quali il valore-lavoro e la fiducia irrazionale sul “compimento della storia” dovuta alla zavorra a-scientifica dello storicismo hegeliano. Ci aspettiamo, allora, che l’aggiornamento ai tempi nostri della dimostrazione della razionalità socialista comporti delle correzioni. La statura scientifica dell’autore dovrebbe farcelo sperare.
L’upgrade dovrà basarsi su qualcosa di molto più valido, altrimenti il Piergiorgio si dimostrerebbe uno antipatico senza motivo. Non sono sicuro che abbia dimostrato di continuare a meritarsi la mia simpatia grazie ad una motivata prosopopea. Infatti, con consueta arguzia, il professor Odifreddi porta sì delle spiegazioni, ma non basate sull’implacabile logica, bensì sul placabilissimo entusiasmo di alcuni slogan. Si, avete capito bene. Non argomentazioni, slogan. Eh, ma letti alla luce di varie discipline scientifiche, peró! Infatti ogni grido di guerra è estrapolato, nella mente dell’autore, da una disciplina.
Vediamo:
 
 
Odifreddi si appella innanzitutto alla Filosofia:
Il comunismo pensa in termini di classi, privilegiando quella dei diseredati (in special modo, il proletariato); il capitalismo si interessa degli individui, privilegiando i ricchi (primi fra tutti gli industriali).
Già questa prima affermazione contiene molto di luogo comune e poco di scientifico. Ad ogni modo, dopo aver azzardato che questa contrapposizione è riproposta dalla dicotomia idealismo tedesco-empirismo inglese (?), non è in alcun modo spiegato perché sarebbe meglio pensare in termini collettivo-tedeschi piuttosto che anglo-individuali; mancanza rilevante, sia in considerazione del fatto che il pur coltissimo autore ignora che l’individualismo metodologico è ormai accettato quale inconfutabile verità anche dai “marxisti analitici” (no bull-shit marxism), sia perché, a voler seguire semplificazioni di analogo tenore, si potrebbe ricordare che la Germania ha prodotto il nazismo (ovvero, il nazionalsocialismo) e la perfida Albione la democrazia. È evidente che, a differenza che in matematica, nel parlare il matematico utilizzi i termini in modo poco rigoroso, per cui non si capisce chi sia il capitalista, cioè se solo un fautore del libero mercato o un ricco imprenditore dedito al furto del plus-valore. Ad ogni modo, l’autore tradisce una poco scientifica concezione organicistica affermando che “il comunismo vuole” una certa cosa, mentre “il capitalismo si inlteressa” ad un’altra. È contraddittorio (non solo per un logico) affermare che una concezione che giustamente si definisce centrata sull’individuo e la sua sovranità “si interessa” ai ricchi.
Non esiste il capitalismo come unità pensante, è una astrazione che cela i singoli capitalisti, persone che si muovono sulla base di incentivi personali e che non sono certo animate da un sogno di edificazione di una società che privilegi questa o quella “classe”. Se disegno esiste, non è di una entità definita “capitalismo”. Ad ogni modo, è ben diverso giudicare un’azione o una dottrina a partire dalle intenzioni o dai risultati. Ammesso e non concesso che il capitalismo, inteso come sistema di libero mercato, privilegi i ricchi, ciò non è programmatico (a meno che dietro l’etichetta “capitalismo” il buon Odifreddi non intenda definire, con poca rigorosa estensione, non un sistema di libero scambio, ma il regime politico-affaristico che preme al fine di perpetuare la sperequazione economica proprio tramite il soffocamento del libero mercato). Se, invece, è programmatica l’attenzione per il povero nel comunismo, l’esito della pratica comunista ci pare totalmente diverso rispetto alle intenzioni. È interessante notare che Odifreddi giudica il comunismo a partire dai buoni propositi e non dagli effetti (evidentemente frutto di non ortodossa applicazione di formule scientifiche), mentre giudica il capitalismo in modo assolutamente inverso, cioè a partire da quelli che ritiene esserne gli esiti nefasti.
Si passa quindi ad appellarsi alla Logica. Piergiorgio insegna in una Università della Repubblica una materia che si chiama proprio “Logica”, quindi ne capisce.
 
 
 
Dice:
il comunismo vuole cambiare il mondo, e perseguire dunque il progresso; il capitalismo si accontenta invece di capire il mondo, e combatte per la conservazione.
Affermazione molto discutibile. Discutiamone. Non esiste progresso se non nato dal confronto. Il libero confronto delle idee, ad esempio. Il comunismo vorrebbe imporre il monopolio ideatico, sempre ad esempio. In tal senso, il comunismo è fortemente conservatore, perché vuole conservare l’assetto di potere, limitare la circolazione di nuove idee, ecc. Ma niente di ciò che regge fra le creazioni umane nasce per imposizione esogena. Lingue, cucina, usi e costumi, diritto consuetudinario, ecc. Tutto ciò è autopoietico. Ovviamente vi rientrano anche i sistemi di scambio fra merci, dato che il mercato anticipa di molto lo stato. Bisogna ricordare, anzi, che l’economista Von Hayek, pensatore che si farebbe fatica a definire un progressista, è autore di un noto saggio intitolato, guarda un po’, proprio “Perché non sono conservatore”. Egli è stato criticato in quanto descrive l’evoluzione per libero confronto in termini chiaramente darwinistici, cioè basati sulla sopravvivenza del mezzo e del sistema più adatto in un processo autopoietico senza sosta. Schumpeter, dal canto suo, ha centrato la sua opera sullo sviluppo prodotto dal capitalismo sotto forma di nuovi beni, nuove qualità, nuove tecnologie, nuovi materiali e fonti di approvvigionamento ecc. Altro che conservazione. Ma bisogna capire a quale conservazione e a quale progresso ci riferiamo.
In realtà, è proprio contro questo sviluppo di beni, tecnologie, materiali, ritenuto causa di disastri ecologici che, da sempre, i veteromarxisti – che nei paesi del socialismo reale hanno prodotto statalmente i più grandi disastri ecologici – gli anarchici più sociopatici e i primitivisti si battono da sempre.
Ma forse Odifreddi intendeva porre sotto il termine “progresso” esclusivamente il progresso economico ed esclusivamente quello di una classe, quella povera.
Questo ci porta alla necessità di discutere un’altra delle argomentazioni “scientifiche” portate da tanto illuminista, quella relativa all’Economia, ma si tratta di un’economia da salone da barba:
 
 


capitalismo e comunismo hanno obiettivi opposti e simmetrici per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza: il primo pretende di far star meglio i ricchi, anche a costo di far star peggio i poveri; il secondo desidera arricchire i poveri, anche a costo di impoverire i ricchi.
Si dà per scontato che impoverire tutti i ricchi sia desiderabile.
È chiaro, così dicendo, che si suppone che i ricchi lo siano per aver rubato ai poveri. In una società ingiusta e in un’economia gestita da oligarchie burocratiche e finanziarie è sicuramente vero. Anche se ragioniamo sulle appropriazioni originarie, si può convenire. Altrettanto vero se ragioniamo sulla scorta di un capitalismo inteso come braccio economico dello stato. Insomma, ridistribuire, che vuol dire sottrarre tramite il fisco, è azione moralmente giusta a partire dall’idea che i ricchi abbiano a loro volta rubato. Questa logica, però, denuncia l’ignoranza di due concetti. Il primo è che il mercato non è un “gioco a somma zero” in cui quello che io guadagno tu lo perdi e viceversa.
Nello scambio fra due individui entrambi guadagnano qualcosa, altrimenti non si avrebbe scambio alcuno. Questo avviene anche quando oggetto di tale scambio sia la forza-lavoro. Che questo possa comportare il rischio di “sfruttamento” è più che vero, e motivo della mia dissonanza con la lettura dei cosiddetti Chicago boys (una scuola economica il cui più noto elemento fu Milton Friedman) e con l’anarco-capitalismo, ma il problema vero e fondamentale è nella sussistenza di forti sperequazioni economiche la cui causa è, non nella mancanza dell’intervento statale, ma proprio nella commistione fra apparato statale e economia, cioè affari e finanza. Commistione, questa, che è madre delle bolle speculative e delle concentrazioni economiche e di potere che schiacciano gli individui. Concentrazioni che difficilmente avrebbero tali caratteristiche in un mercato realmente libero. Pierre-Joseph Proudhon, Benjamin Tucker e Francesco Saverio Merlino, tre “socialisti”, da tre diverse angolazioni, hanno detto queste stesse cose, cioè che il socialismo non è antitesi del liberalismo, ma suo compimento.


 
Veniamo allora allo slogan “confermato” dalla Fisica:
Il comunismo persegue un’ideale di uguaglianza, in cui ciascuno dà secondo le proprie possibilità ed ottiene secondo i propri bisogni; il capitalismo cerca di mantenere e accrescere la diversità, in special modo fra chi produce e chi guadagna.
Mi sembra un ottimo slogan a favore del capitalismo. Primo, perché la concezione del “ciascuno fa quel che può, ma prende all he can eat è utopistica anziché no. Secondo, perché, essendo gli uomini tutti diversi – e in ciò risiede la ricchezza dell’umanità e il motivo di tutti i suoi progressi (che, lo abbiamo detto, derivano dal confronto) –, a livellarli non si avrebbe altro che una sterile staticità e una uniformazione ottenuta tramite il soffocamento e la mortificazione delle caratteristiche individuali. A voler giocare al gioco di Odifreddi – il gioco si chiama “ma quante ne so” – si può citare lo schema struttural-funzionalista di Merton che rappresenta una società armonica e funzionale solo se tutti perseguono conformisticamente gli stessi fini e tramite gli stessi mezzi. Che questo comporti la pace sociale è verissimo. Ma affermare, come Odifreddi afferma, che la società senza frizioni porti al progresso è risibile. Galilei sarebbe considerato disfunzionale nello schema mertoniano. Per inciso, gli struttural-funzionalisti utilizzavano quale esempio di tale società ideale la Cina Maoista. Piazza Tienammen è stata la dimostrazione tanto della non veridicità del conformismo funzionalista quanto della qualità persuasiva della retroazione del sistema per riportare alla uguaglianza. 
Quanto all’accrescere le diversità fra chi produce e chi guadagna, Odifreddi lo sa, se ha letto Marx, non è conveniente per gli stessi capitalisti. A chi venderebbero i loro prodotti? 
Ma il bello inizia ora, con l’aumentare del tasso “scientifico”. È il turno delle Scienze Cognitive:


 

Il comunismo propone un’organizzazione della società basata sulla ragione; il capitalismo  uno sviluppo basato sull’istinto.
Interessante argomento che poco ha a che vedere con le scienze cognitive (e con le scienze tout court) e che finisce col produrre schematismi antropologici per cui “la lateralizzazione del cervello è dunque coinvolta nella determinazione del comportamento neuronale, in modo tale da riflettere (forse non solo per ironia della sorte) le tendenze politiche: gli individui “di sinistra” (in cui l’emisfero di sinistra abbia cioè la prevalenza) saranno più razionali e scientifici, quelli “di destra” più istintivi e artistici.”. Giuro che lo ha scritto. Stranamente, però, la maggior parte degli artisti sono di sinistra e buona parte degli imprenditori sono molto razionali. Nel primo caso, la cosa è probabilmente dovuta alla apertura mentale di cui l’artista necessita per esplicare la propria libera creatività, nel secondo, nel calcolo e nell’inventiva che chi investe e rischia deve necessariamente mettere in atto, certo, accanto anche all’istinto. Ad ogni modo, la fallacia e il pericolo dell’affermazione dell’impertinente matematico è nell’idea che esiste un sistema razionale perché “giusto” (o giusto perché razionale). Ma questa è considerazione etica. Hume ci ricorda che una affermazione etica non può trasformarsi in prescrizione (la conclusione di un sillogismo può essere imperativa solo se lo sono anche le premesse) e Nozick che non esiste una società “perfetta” che accontenti tutti. È in nome di indimostrabili superiorità che si danno gli integralismi e le guerre di religione. Se qualcosa è realmente gradita a tutti, si impone da sola. Se una cosa è realmente oggettiva, non è necessario imporla. Diceva Voltaire che non esistono sette in geometria. Ma non è il caso di ricordarlo a un matematico.
 


 
All’argomento della razionalità è strettamente legato anche lo slogan che l’autore fa supportare dall’Informatica:
il comunismo è a favore della pianificazione centrale; il capitalismo canta le lodi del libero mercato.
È chiaro che ciò esprime l’idea che il comunismo è razionale, perché pianifica. Pianificare significa ragionare. Cogito ergo pianifico. Invece, il libero mercato, in ragione appunto della propria libertà, non pensa, quindi è stupido. In realtà, il maggior tallone d’Achille dell’intelligenza del comunismo è proprio nell’idea di pianificazione. La pianificazione prevede conoscenza. Conoscenza dei bisogni, dei tassi di sostituzione marginale, di dove allocare le risorse ecc., tutte cose che nessun organismo, neppure onnisciente come Odifreddi o il platonico “governo dei custodi”, possiede. Tali conoscenze, invece, sono possedute, in frammenti, dai vari individui. Solo il sistema dei prezzi è un meccanismo perfetto per comunicare informazioni, conoscenza, velocemente e ovunque. Questo autopoietico meccanismo conoscitivo è acefalo – cibernetico, professore – e non dotato di concretezza fisica. Risponde, cioè, alle stesse caratteristiche che, nella conclusione del suo bel libro, Perchè non possiamo essere cristiani, Odifreddi attribuisce, in un rigurgito di naturalismo, alla dea natura, al logos.
Non antropomorfica divinità senziente e pensante ma semplice descrizione delle leggi che governano ed equilibrano l’universo. Insomma, in religione il matematico è ateo, in economia è pio.
Bene, ora è il momento delle Scienze politiche:
 
 
Il capitalismo si ritiene indissolubilmente legato alla democrazia rappresentativa, che produce un parlamento di cittadini; il comunismo si organizza in soviets, che esprimono le classi.
Anche questo non è male come slogan a favore del liberalismo (si noti come il termine “capitalismo” sia polisemantico per l’impertinente). In verità, in verità ci dice, però, che quello che può sembrare un vantaggio, cioè la democrazia, è uno svantaggio, perché la democrazia è una truffa. Per giungere a questa conclusione non avevo bisogno di Odifreddi. Egli cita il paradosso dell’elettore di Arrow che dimostra come le regole di Condorcet, normalmente utilizzate nel rito della celebrazione elettorale, sono assolutamente irrazionali, perché non consentono una scala di preferenze che rispecchi realmente quella espressa dagli elettori. Bene. A conoscenza di questo stato di cose, e di altri fatti, è da che per gran parte della mia vita non ho votato. Non so come si comporti al riguardo Odifreddi, però, inquietantemente, questi scrive che Arrow ha dimostrato che “esiste solo un sistema che non presenti le stesse caratteristiche paradossali (…) questo solo sistema è la dittatura”. Forse anche a Odifreddi non piace votare…
 
 
Passiamo quindi alle Scienze Naturali:
Il comunismo – scrive il matematico – teorizza la rivoluzione come mezzo per la conquista del potere e la trasformazione radicale della società; il capitalismo contrappone il cambiamento graduale come espediente per la conservazione di entrambi.
Qui Odifreddi afferma che nella scienza moderna la discontinuità è l’ipotesi più in voga (e si cita, fra le altre cose, quale paradigma epistemologico, solo quello di Kuhn, unico basato sul principio “dialettico” marxiano di tesi-antitesi-sintesi…). Non manca dotta citazione di Sofocle. Non capisco l’argomento. Forse ci si riferisce al concetto nichilista molto in voga in certi circoli  per cui il sistema non si riforma ma si distrugge. Un’ottica, dunque, palingenetica. Si può esser d’accordo o meno, solo che non capisco in che modo la scienza, dalla fisica quantistica alla teoria delle catastrofi – entrambi esempi del professor Odifreddi – arrivi in soccorso all’idea palingenetica. La scienza, come l’etica, descrive, non prescrive. Qui, mi pare, neppure descrive nulla di ciò che riguarda gli esseri umani!
Ma il meglio l’autore non può che darlo sulla sua materia d’elezione: la Matematica. Qui, infatti, l’argomento è più logico e ben spiegato, per quanto abusato. Rifacendosi alla “teoria dei giochi”, ripropone il vecchio “dilemma del prigioniero”.
 

 
Vale la pena di trascrivere parte del paragrafo:
Il dilemma si pone a due complici arrestati, a cui si presenta una triplice scelta: se uno dei due denuncia l’altro ma non viceversa, il delatore viene liberato ed il tradito viene condannato a 20 anni; se entrambi denunciano l’altro, ricevono 20 anni ciascuno; se nessuno denuncia l’altro, essi vengono condannati entrambi a 10 anni.
Un capitalista sceglierà di denunciare il complice, nella speranza di ottenere per sé il massimo vantaggio (la liberazione); un comunista sceglierà di non denunciare il complice, nella speranza di evitare tutti il male peggiore (la condanna a 20 anni). Fra due capitalisti, entrambi vengono condannati a 20 anni; fra due comunisti, entrambi vengono condannati a 10 anni; fra un capitalista ed un comunista, il primo va libero ed il secondo è condannato a 20 anni; in nessun caso entrambi sono liberati.
Due commenti:
– il primo è che prima l’autore descrive il capitalismo come un “gioco a somma zero”, poi, proprio quando utilizza l’esempio di un “gioco a somma diversa da zero”, quale è il mercato, cerca di utilizzarlo come arma impropria contro il concetto di mercato!
– Il secondo commento: questo è proprio un esempio di gioco di prestigio in cui si passa, senza che il pubblico se ne avveda, dalla “razionalità” all’“istinto”, dalla a-valutatività scientifica al moralismo degli affetti. Ancora una volta, infatti, non si capisce il senso delle definizioni. Qui “capitalista” non è la persona che partecipa ad un sistema di produzione e libero scambio. C’è una connotazione morale che funge da gioco delle tre carte in cui tu credi di vedere una cosa e ne vedi un’altra. Lo schematismo prevede che “capitalista” sia sinonimo di carogna e “comunista” di samaritano. Vedete come il piano della ragione e quella del sentimento si mescolino. All’asetticità si mischia il giudizio morale. Il gioco, comunque, non mira in origine a dimostrare che una data idea politica è più adatta a non prendere fregature dagli altri. Descrive solo quella condizione hobbesiana di homo homini lupus per cui, in condizioni strategiche di tale fatta, è più probabile, per chiunque, dimostrarsi egoisti a danno altrui, e alla fine anche proprio, perché la scelta più comune è quella della defezione di entrambi.
Ma questo avviene solo se il gioco è a singola presentazione, perché, sempre in base alla logica del bene proprio, il gioco può comportare la cooperazione, un “altruismo a proprio favore”, se è a n-ripetizioni. Cioè, chi è costantemente immesso in dilemmi del prigioniero ha comportamenti differenti da quello esemplificato in questa artificiale situazione singola. Altrimenti i danni totali (i pay off negativi) di ripetute defezioni sono troppo alti e sconvenienti. Si impara, cioè, che la scelta “defezionante” (nel gioco, la delazione) non paga. Il mercato è appunto un gioco in cui la scelta di defezione non paga. Cioè, si immagini che io mi fido di tutti, e nessuno mi paga, oppure che uno mi paghi e io non gli fornisco un bene o una prestazione. Il mercato, se questa fosse la regola, non si manterrebbe un giorno. Se parliamo di “persona defezionante” e “persona cooperante” ci rendiamo conto che, nell’ambito del mercato, che è proprio un sistema per uscire da quel “dilemma del prigioniero” che è la vita tutta, il capitalista, qui inteso come persona disposta a scambiare, è il cooperante (altruista per egoismo), mentre il comunista, qui inteso come persona non disposta a scambiare, è il defezionante (egoista per altruismo).
Dato, insomma, il problema di uscire da questa condizione di natura in cui si è immessi in dilemmi del prigioniero, esistono due soluzioni: il mercato e lo stato. Ma, come scrive Riccardo La Conca, “Mentre, tuttavia, lo stato cerca di superare il dilemma penalizzando la strategia della defezione, il mercato lo fa premiando la strategia della cooperazione. D’altra parte il mercato e lo stato cercano di ancorare i comportamenti dei giocatori individuali a parametri oggettivi che si suppone rappresentino l’interesse collettivo. Tuttavia i parametri del mercato – vale a dire i prezzi – si definiscono e si modificano in modo impersonale e si autoimpongono. Per converso, i parametri dello stato, vale a dire le leggi, non solo sono concepiti e modificati dagli esseri umani, ma devono altresì essere imposti da esseri umani. Il che significa che, mentre il mercato trasporta i giocatori da una situazione strategica a una situazione parametrica senza l’intervento di altri giocatori, lo stato riesce a effettuare questa operazione di trasporto solo mediante la creazione di altri giocatori, vale a dire coloro che gestiscono la macchina statale, che danno vita in questo modo a un nuovo tipo di gioco, un gioco in cui alcuni giocatori hanno un potere virtualmente illimitato di penalizzare gli altri – tutti gli altri e non necessariamente i defezionisti – e di premiare se stessi o i propri amici o i propri “clienti” (ai quali questi peculiari giocatori sono in grado di “vendere” qualsiasi tipo di privilegi)”.
Consiglio sempre ai tuttologi di evitare altri tuttologi, perché l’altrui “tuttismo” potrebbe essere piú lungo del loro e, come disse quello, “quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l’uomo con la pistola è morto“.
A questo punto, è giunto il momento di togliermi la maschera con cinematografico gesto: io la penso come Odifreddi! Anch’io vorrei un mondo in cui tutti fossero “compagni”! Cioè, mi piacerebbe che tutti fossero animati dallo stesso spirito di comunione e fratellanza e nessuno sfruttasse nessun altro, esattamente come vorrei i torrenti di latte e le fontane di vino di Montepulciano. Ma, come fa giustamente notare Odifreddi, “non solo il comunismo può funzionare come sistema universale, ma funziona soltanto se lo diventa”. Verissimo. Il comunismo puó funzionare. Bisognerebbe essere tutti genuinamente comunisti. Purtroppo, non tutti gli esseri umani sono dotati delle stesse qualità di sensibilità, cultura, intelligenza, disgusto per la mercificazione e banalizzazione della vita quotidiana, rigetto per l’agonismo e spirito fraterno che contraddistinguono me e Odifreddi. Tutte queste qualità sono, come il Dio di Pascal, sensibili al cuore e non all’intelletto, con buona pace dell’esprit de geometrie che permea il provocatorio e arguto saggio del matematico. Ma i cuori sono diversi. Allora non resta che dare ascolto a David Friedman che ci ricorda che ci sono solo tre modi di indurre gli altri a comportarsi come noi vogliamo, cioè l’amore, la forza e lo scambio. L’amore funziona se tutti amiamo. Puó valere solo per gruppi piccoli di persone che si conoscono. Altrimenti si può scegliere fra le altre due. Ricordando, come sempre Friedman dice, che una società socialista con uomini perfetti – cioè, socialisti – funziona sicuramente meglio di una società imperfetta, come quella liberale, con uomini imperfetti, ma una società socialista con uomini imperfetti è peggio di una società liberale formata da uomini egualmente imperfetti. Insomma, è apprezzabile e condivisibile l’affermazione che il sole è più bello della pioggia ed è giusto raccomandarlo urbi et orbi, però, per quanto sia “meglio indossare un bikini quando c’è il sole che un impermeabile quando piove”, beh, dice Friedman “Questa non è una buona ragione per non portare mai con sé l’ombrello”.

sabato 27 gennaio 2018

Radicali impotenti

Oggi è il Giorno della Memoria. Anche se sono convinto che non sempre più partecipazione popolare al voto significhi maggiore diffusione di libertà e benessere, penso che nella nostra epoca maggiore impegno, anche elettorare, da parte di coloro che hanno a cuore le libertà individuali sia necessario, per contrastare rigurgiti totalitari, purtroppo presenti anche nella politica ed anche a livelli non proprio marginali.
 
 
Il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito ha scelto di boicottare le prossime elezioni politiche italiane ed invita al non voto. L'unica volta che mi ricordi in cui il PR di Pannella scelse la via del non voto, presentò comunque il suo simbolo ed invitava chi non era convinto ad effettuare lo sciopero del voto a votare la lista del PR. Inoltre si trattava di un Italia dei primi anni '80, nella quale le elezioni influivano pochissimo sulle maggioranze di governo, i cambiamenti tra un'elezione e l'altra erano minimi e l'affluenza alle urne era quasi del 90%. Non è casuale, poi, che quella scelta non fu più fatta dal PR, dal 1983 in poi. Ed oggi i vedovi di Pannella, in un quadro profondamente mutato e senza aver fatto tesoro di quell'esperienza e senza alcun rilievo mediatico, indicano la via del non voto! Sono fuori dalla realtà, su questo punto!

No, la scelta attuale dei radicali del PRNTT di boicottare le elezioni non è una proposta, mi pare, perché non indica obiettivi e perché esprime impotenza... Non so se cercano di togliere voti ad Emma, ma nel quadro in cui fanno questa scelta, in effetti, fanno una pessima figura, anche nei confronti di come si stanno relazionando con la proposta politica di "+ Europa con Emma Bonino", che avrà tutti i limiti che loro vedono ed anche altri, senza dubbio, ma che è incomprensibile venga così contrastata da coloro i quali hanno condiviso con Emma Bonino quasi tutto, per decenni, politicamente!

mercoledì 17 gennaio 2018

La mano invisibile e la mano armata

Inizia con questo articolo, già pubblicato il 5 aprile 2016 nel blog tarantula, la collaborazione di Luigi Corvaglia con GeoLib e siamo onorati di averlo tra noi.
 
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Di Luigi Corvaglia
 
Interno notte. Due personaggi nella luce soffusa di un lume, un giovane uomo e una giovane donna al tavolo di un bistrot. Benché un poeta possa trovare parole romantiche per descrivere la scena, le persone che li osservano appartengono a due categorie note per la loro totale carenza di romanticismo. Sono, infatti, un biologo evoluzionista ed un economista. Il biologo sa che quello che sta avvenendo è un rituale finalizzato all’accoppiamento. Il costo che l’uomo sta sopportando offrendo la cena all’oggetto delle sue brame sessuali non è altro che la versione umana della coda del pavone, cioè l’espressione di un istinto evolutosi sotto l’influenza del cosiddetto “principio dell’handicap”. Tale principio afferma che quanto più un comportamento è “costoso”, cioè quanto più comporta un handicap per chi lo produce (come la inutile e antiadattativa coda del pavone), tanto più è efficace come messaggio sessuale. Così il giovane dilapida i suoi denari in cene costose in luoghi scarsamente illuminati. L’economista è attento, però, ad un’altra dinamica. Egli riflette sul fatto che la signorina non sa quante risorse di tempo e denaro il giovanotto è disposto a spendere pur di vedersi consegnata la sua virtù e, al contempo, il giovanotto ignora quanta della propria virtù la signorina è disposta a cedere e dopo quanta dimostrazione del suo interesse (espresso in tempo e denaro). Il problema è l’informazione. In Economia ciò che si è disposti a spendere pur di ottenere un certo “bene” si chiama “tasso di sostituzione marginale”. Torniamo quindi al nostro bistrot e immaginiamo che subentri un nuovo personaggio: l’amico fidato di entrambi. In virtù dell’assoluta fiducia di cui fruisce da parte dei due, questi è in grado di acquisire dati assolutamente genuini su quanto questi sono disposti a cedere pur di ottenere. Supponiamo ora che questa persona intervenga in qualità di arbitro nella contrattazione e che, in base alle sue informazioni, fissi un punto di equilibrio al quale i due massimizzino l’entità e la vantaggiosità del loro “scambio”. Dirà così alla signorina che il giovanotto dopo il terzo ristorante senza guadagni non intende insistere. Ciò renderà estremamente probabile che i due trovino un punto di equilibrio ottimale. Questo è noto ai meno romantici come punto di massimizzazione dell’utilità collettiva. È ciò che gli economisti chiamano il punto di ottimo paretiano. L’ottimo, per Pareto, è quella condizione in cui è impossibile migliorare la condizione di qualcuno senza peggiorare quella di qualcun altro. La situazione pareto-ottimale si sarebbe qui ottenuta in quanto gli “scambisti” sarebbero stati ancorati ad un punto di riferimento oggettivo, cioè ad un parametro. Un parametro è un criterio condiviso e conosciuto dai vari attori ed utilizzato per prendere le decisioni. Questo parametro è il “costo” della propria scelta.
 

 
La “Teoria dei giochi” è una branca matematica che utilizza situazioni artificiali (i “giochi”) come modelli del reale e valuta gli esiti delle interazioni in termini di guadagni (pay off positivo) e perdite (pay off negativo). Un “gioco”, quindi, è una condizione conflittuale in cui esistono uno o più contendenti che cercano di massimizzare il proprio guadagno. In pratica, la teoria dei giochi è la definizione in termini matematici del modo in cui si comportano gli individui quando si trovano in una situazione che può portare alla spartizione o alla vincita di qualcosa. In altri termini, si applicano le regole della matematica per descrivere e, in certa misura, prevedere l’andamento di uno scenario interattivo reale tramite una simulazione (il gioco, appunto). È quindi un campo di studi situato all’incrocio fra matematica, economia e psicologia sociale. Non solo. Ad esempio, è stata proprio la teoria dei giochi a fornire delle convalide al “principio dell’handicap” in biologia.
In “teoria dei giochi” la condizione in cui i costi siano condivisi e conosciuti, come nel caso della interazione fra i due giovani con la mediazione dell’amico fidato, si chiama “situazione parametrica”, laddove la condizione di ignoranza (dei tassi di sostituzione marginale) , è chiamata “situazione strategica” perché prevede l’utilizzo di strategie quali l’attacco, il bluff, ecc. da modificarsi in base alle risposte degli altri giocatori. È il caso dei due senza l’amico fidato. Il giovanotto potrebbe basarsi su una strategia di attacco e, aiutato da un discreto tasso alcolemico, potrebbe saltare addosso alla signorina. Non sa però se ne riceverà i favori sperati o un sonoro ceffone. Noi tutti viviamo immersi in strutture di rischio, perché l’esito delle interazioni è sempre incerto, e siamo pertanto costretti ad agire in base a presunzioni.
La differenza fondamentale fra le due condizioni è che nella situazione strategica ogni azione di un “giocatore” dipende da quella degli altri, mentre in quella parametrica no. Nella condizione strategica (tipo i due giovani senza l’amico), cioè, la scelta di un giocatore dipende da ciò che si attende facciano gli altri agenti in relazione alla propria scelta (ad esempio, da cosa il giovanotto si attende quale ricompensa di tre cenette romantiche, un mazzo di fiori e un cinema da parte della signorina) . Si definisce equilibrio parametrico, invece, quello in cui la scelta di ogni agente può essere analizzata isolatamente da quella degli altri. È il caso della scelta dei clienti di un supermarket. Ognuno, conscio dei parametri (i prezzi) effettua la sua scelta, insensibile a quelle degli altri. In questo caso le condizioni in cui un agente sceglie sono descritte da parametri che non dipendono dalla sua scelta. La condizione esistenziale dell’uomo allo stato di natura è squisitamente strategica. L’esemplificazione in termini di “gioco” ne è il celeberrimo “dilemma del prigioniero”.
È la nota situazione, proposta da Flood e Dresher della Rand Corporation, nel 1950, in cui due tizi vengono interrogati in stanze differenti e sono posti nella condizione di scegliere se confessare o no, inconsapevoli di cosa stia facendo nel frattempo il complice. Viene inoltre spiegato loro che:
  1. se solo uno dei due confessa, chi ha confessato evita la pena; l’altro viene però condannato a 7 anni di carcere.
  2. se entrambi confessano, vengono entrambi condannati a 6 anni.
  3. se nessuno dei due confessa, entrambi vengono condannati a 1 anno.
Qui non c’è nessuno ad arbitrare. Nessun amico fidato. In tale situazione, ogni attore, all’oscuro della mossa della controparte, è costretto a scegliere una opzione con la complicazione aggiuntiva che l’esito della propria scelta è una funzione anche della scelta dell’altro. Il guadagno maggiore, in simili condizioni, premia la scelta egoistica definita “defezione” (cioè, confessare, fregando l’altro e ottenendo la libertà) piuttosto che quella definita “collaborazione” (cioè, l’omertà). Nello stato di natura, il dilemma del prigioniero è la norma. Lo stato di natura è una condizione di onnipresente, pervasiva strategicità. È un dilemma del prigioniero ripetuto all’infinito. È a ciò che Hobbes si riferisce quando parla di una situazione di “bellum omnia contra omnes”.
Questo discorso non mina solamente l’ingenua antropologia benigna di certo anarchismo, ma rappresenta una seria sfida anche per il pensiero “liberale” e libertario di mercato. Infatti, sembra confutare il fondamentale paradigma dell’individualismo, perché evidenzia che la somma degli interessi individuali non dà luogo all’interesse collettivo. Mentre, infatti, il guadagno finale (pay off) del singolo individuo è più alto quando defeziona che non quando coopera, il pay off collettivo, ottenuto sommando i pay offs individuali, è più alto quando gli individui cooperano che non quando essi defezionano. Insomma, ad ogni singolo individuo conviene tradire, ma alla società conviene che la maggior parte degli individui sia fedele e/o complice. Insomma, nella condizione di natura c’è bisogno di fissare dei parametri, altrimenti l’egoismo porterà dei pay off negativi e lo stato di incertezza strategica diviene la regola. Lo stato è, per esempio, un’entità che fissa dei parametri, le “leggi”. La produzione statale di parametri, quindi, utilizza la “forza”. Del resto, è nota la definizione di stato come detentore del “monopolio della forza” ad opera di Max Weber. Se si impicciasse di definire i parametri anche delle interazioni sessuali potrebbe, per esempio, fissare che due cene bastano. La signorina, dopo, deve concedersi, pena il pagamento di una multa. Consapevoli, ad ogni modo, della pervasività e incertezza della condizione di natura, sono molti coloro i quali temono che lo stato perda potere (cioè il proprio monopolio della forza) a vantaggio di ciò che viene chiamato il “mercato”. Infatti, non sono pochi, neppure fra gli autori di cose politiche, quelli che vedono nel “mercato” stesso una condizione selvaggia, uno “stato di natura” hobbesiano con tanto di homo homni lupus d’ordinanza, quindi una forma di “dilemma del prigioniero”. Il termine “mercato” rimanda alle merci, alla loro produzione, quindi allo sfruttamento capitalistico e alla meschinità mercantile. È termine connotato negativamente da larga parte dell’opinione pubblica, quella più progressista e culturalmente aperta (ma anche da certo comunitarismo destroide…). In verità, come si è visto nell’esempio dei due giovani al bistrot, ma anche dei due prigionieri, qualunque interazione, anche la più lontana dal mondo della produzione ed allocazione delle merci, può essere letta secondo la logica di tipo economico. Si parla di “mercato” perché queste dinamiche sono state studiate dagli economisti. Uno psicologo avrebbe parlato di rinforzi e stimoli avversivi, un cibernetico di logica sistemica, ecc. Comunque, anche in relazione al mercato delle merci, parlarne come di condizione selvaggia e “strategica” è un errore. Commesso da molti. Infatti, alcuni (ad esempio, Joan Robinson, Andrew Shotter, Russell Hardin) hanno sostenuto che il dilemma del prigioniero è la confutazione del paradigma della mano invisibile. In altri termini, che esso mostri il “rovescio”, la faccia malevola , di quella mano di cui Adam Smith ci aveva mostrato solo il “diritto”, cioè gli aspetti benigni . A questi autori sfugge, però, la cosa più importante, cioè che ciò che gli economisti chiamano “mercato” è il gioco parametrico per eccellenza. Non ha niente a che vedere con la condizione di incertezza strategica. Infatti, anche se nel mercato – comunque inteso – non esiste un amico fidato con le qualità descritte nell’esempio dei due giovani al bistrot, la stessa funzione di arbitrato viene svolta in modo impersonale dal sistema dei prezzi. Il mercato distribuisce beni e servizi sulla base di parametri, i “prezzi”, appunto, e ogni individuo effettua le sue scelte nella totale indifferenza delle altrui azioni.
La“mano invisibile” di Smith, il “banditore di Walras” – è il soggetto che fissa il prezzo d’asta a quel valore che determina l’assenza di eccessi di domanda e d’offerta – e il sistema dei prezzi come arbitro hanno in comune il fatto di essere metafore antropomorfiche. Ciò per dire che questi sono soggetti presunti, non reali, che non esistono anche se si comportano come se fossero senzienti. Il mercato, infatti, appare come se fosse dotato di volontà e ottenesse e mantenesse il suo equilibrio per regolazione esogena piuttosto che in modo cibernetico ed autopoietico. Questo arbitro metaforico, se esistesse realmente, avrebbe qualità divine. È tipico attribuire qualità sovraumane a entità inesistenti. Infatti, l’arbitro, questo “amico fidato” di tutti gli individui, sarebbe onnisciente e moralmente perfetto, viste le qualità di assoluta imparzialità e di perfetta conoscenza delle preferenze di tutti gli individui coinvolti negli scambi. Come abbiamo detto, l’informazione è tutto. Il mercato, insomma, si comporta come se fosse programmato da qualcuno, ma non è programmato da nessuno. È per questo che è “razionale”, imparziale e onnisciente. È proprio questa impersonalità a realizza effettivamente l’ideale della “rule of law”. È mano invisibile. Per converso, i parametri dello stato, vale a dire le leggi, non solo sono concepiti e modificati dagli esseri umani, ma devono, altresì, essere imposti da esseri umani tramite il monopolio della forza. È mano armata. In fin dei conti, il mercato e lo stato cercano entrambi di risolvere il dilemma hobbesiano. Questi configurano due diversi tentativi di trasportare gli individui dalla situazione strategica di natura a una situazione parametrica. Cercano, in altri termini, entrambi di alterare le matrici dei pagamenti dei giocatori individuali rispetto alle matrici originarie, che sono quelle di un “dilemma del prigioniero”. Mentre, tuttavia, lo stato lo fa penalizzando la strategia della defezione, il mercato lo fa premiando la strategia della cooperazione. Poiché i parametri del mercato – vale a dire i prezzi – si definiscono e si modificano in modo impersonale e si autoimpongono, si può dire che il mercato è “un’anarchia ordinata” (Buchanan), un “ordine spontaneo” (Hayek), un “anarcosmos” (La Conca). Di fatto, la creazione spontanea di parametri mediante il libero confronto permette di passare dall’anarchia “strategica” (chaos) all’anarchia “parametrica”(cosmos).
Non solo. Mentre il mercato trasporta i giocatori da una situazione strategica a una situazione parametrica senza l’intervento di altri giocatori, lo stato riesce a effettuare questa operazione di trasporto solo mediante la creazione di altri giocatori, vale a dire coloro che gestiscono la macchina statale, i quali danno vita in questo modo a un nuovo tipo di gioco. In questo nuovo gioco alcuni attori hanno un potere virtualmente illimitato di penalizzare gli altri – tutti gli altri e non necessariamente i defezionasti – e di premiare se stessi o i propri amici e “clienti” ai quali questi peculiari giocatori sono in grado di “vendere” qualsiasi tipo di privilegi. Ciò fa saltare i parametri, cioè la matrice dei pagamenti. Fra questi “clientes” figurano anche e soprattutto i rappresentati della casta dei “capitalisti”, cioè di coloro che, in combutta col potere statale, alterano le “regole” del libero scambio a proprio favore.
Il mercato ideale, infatti, è l’ assoluto contraltare di quel sistema di sfruttamento operato dalla casta economica che qualche sprovveduto chiama oggi mercato. Nella realtà del mondo, infatti, i due sistemi, quello della “forza” e quello dello “scambio” (per dirla con Friedman), vivono perversamente avvinghiati. La banda finanziaria antidemocratica è fuori da ogni parametro ed è quindi innervata allo stato proprio per garantirsi di essere al riparo da un mercato che possa definirsi “libero”. Due mani, due pistole. Dall’altra parte delle canne, i cittadini. La democrazia così intesa è ben rappresentata dall’immagine proposta da Benjamin Franklin: “due lupi ed un agnello che discutono su cosa ci sia per cena”. Il sistema per far dissolvere le due caste, quella politica e quella economica, allora, non può essere che quello di allargare l’ambito della libera scelta e del libero scambio, la mano invisibile, a scapito di quello dello stato e del capitalismo monopolistico, la mano armata.
 
 

Dedicato a Riccardo La Conca. È alle lunghe chiacchierate con lui che devo i concetti espressi in questo scritto.