Di Fabio Massimo Nicosia
Nella nostra realtà c’è sempre qualcuno che rivendica vecchi e nuovi “diritti”: civili, sociali, pubblici, privati, di "cittadinanza".
La cosa è ben fatta, perché più
diritti ci sono meglio è, senza andare tanto per il sottile, a condizione che ci
si sforzi di rispettare il criteri di restrizione dell’universalizzazione; e ciò anche se si direbbe che, mentre alcuni “diritti”
limitano l’invadenza dello Stato, altri, per come vengono attualmente
configurati, l’incrementano, sicché, con riferimento a tale seconda ipotesi, si
richiederebbe la riformulazione dell’approccio. In ogni caso, più diritti si
pretendono, più si accresce il tasso di caoticità,
quindi si tratta di cosa buona e giusta nella direzione dell’implosione del sistema.
Tuttavia, tali considerazioni di
carattere estremamente pratico non possono impedirci di vedere i “diritti” per
quello che sono in realtà e in termini di teoria generale: dei “privilegi”.
Non esiste infatti diritto che
sia effettivamente universale, ciascuno di essi patendo deroghe ed eccezioni,
diffuse o circoscritte.
In genere, per godere di “diritti”,
occorre trovarsi in determinate condizioni stabilite dalla legge; ad esempio,
per esercitare la professione di avvocato o di giornalista, in tale secondo
caso almeno da noi, occorre essere iscritto a un ordine, per aprire un bar o un
negozio di abbigliamento occorre una licenza commerciale, per votare occorre
non essere stati esclusi dalle liste elettorali, per poter accedere a una
carica pubblica occorre non essere stato interdetto dai pubblici uffici, per
poter ricorrere in giudizio occorre essere “legittimati” all’azione, per
costituire una società bisogna andare dal notaio, per godere della pensione di
reversibilità occorre essere sposati, per poter legiferare bisogna essere
eletti, per poter giudicare bisogna avere vinto il concorso di magistratura, per poter esercitare legittimamente la
violenza, fuori dai casi di legittima difesa e stato di necessità, bisogna
essere poliziotti, per poter comprare una casa occorre avere diciotto anni, per
non finire in manicomio bisogna essere considerati “sani” dagli psichiatri, per
non finire in prigione occorre non trasgredire le norme che stabiliscono quali
siano i “reati”, per guidare l’automobile occorre una patente, stipulare un
contratto di assicurazione e pagare l’imposta di bollo, per non essere
bombardati è necessario non appartenere a una nazione belligerante o, per
meglio dire, aggredita, per costruire occorre una concessione edilizia, per
continuare a godere dell’immobile è necessario pagare un’imposta, per non
vedersela espropriata occorre pagare le altre tasse, per poter surrogare la
maternità bisogna andare all’estero rischiando una sanzione, per potersi esprimere
occorre non ledere o urtare la sensibilità di qualcuno pena a sua volta sanzione,
per poter aiutare qualcuno a esercitare attività sessuale è obbligatorio non
chiedere il benché minimo compenso, altrimenti si incorrerebbe nei reati di
sfruttamento o favoreggiamento della “prostituzione”, per poter costituire un’associazione bisogna non essere fascisti o
comunisti a seconda dei vari paesi, per godere di un reddito occorre “lavorare”,
fosse pure con spreco di risorse per tutti, per portare un’arma occorre essere
autorizzati, e si potrebbero fare infiniti esempi del genere più disparato: nessun diritto è cioè incondizionato, sicché si tratta sempre
appunto di “privilegi” rispetto alla generalità degli individui, siano di volta
in volta i “privilegiati” i più o i meno.
Un antispecista aggiungere poi che
praticamente nessuno di questi “diritti” è riconosciuto all’animale non umano,
benché questi sappia porre da sé proprio diritto, con la propria condotta,
quando viene messo in condizione di farlo: e così un animale cerca di scappare
dal camion che lo porta la macello quando il camion si ribalta, un cane morde
una mano molesta e ognuno segna, come direbbe Paul Goodman, la propria “linea”,
o il proprio “territorio”, come direbbe un etologo.
In altri termini, il “diritto
soggettivo”, in ordinamenti giuridici come il nostro, è sempre e solo una concessione da parte dello Stato, e
quando ne vengono meno i presupposti esso costituisce oggetto di una espropriazione.
Si dirà che questa è una delle conseguenze
nefaste del cosiddetto “positivismo giuridico”, ma in realtà non è che con il “giusnaturalismo”
le cose cambino di molto: in effetti, premesso che esistono tanti e diversi giusnaturalismi, dimodoché i “diritti” conferiti da
ciascuno sono differenti tra loro –in realtà molti giusnaturalismi, ad esempio
di matrice cattolica, attribuiscono “obblighi”, ossia sottolineano con minuzia
tutto ciò che “non si può fare”, piuttosto che conferire “diritti”-, gettando
la materia nella più ampia incertezza, anche il giusnaturalismo non fissa “diritti” indiscriminatamente, ma
sempre demarca, tra le facoltà naturali,
quelle che costituirebbero “diritto” da quelle che non andrebbero considerate
tali.
Ad esempio, mentre i
giusnaturalisti cattolici si dilungano nel precisare quali attività del corpo
siano “consentite” (da loro) e quali no, in altri giusnaturalismi è nota e
diffusa la dottrina per la quale, per divenire proprietario di un suolo,
occorre averlo previamente “lavorato”, benché tale nozione sia ampiamente
indeterminata.
In altri termini, i “diritti
soggettivi” sono sempre in realtà “interessi legittimi”, o, per meglio dire interessi legittimati, dallo Stato o da
qualche norma cosiddetta morale, arbitrariamente o più o meno ragionevolmente,
fatta propria e unilateralmente “posta” da qualcuno, al di là di ogni retorica
connessa alle etiche dell’argomentazione.
All’opposto, noi riteniamo che
ognuno, con la propria condotta, crei il
suo proprio diritto soggettivo, frutto dell’azione razionale e deliberata
che esprima criteri, espliciti o impliciti, di scelta e di orientamento.
Si dirà che l’essere umano, in
analogia in questo con il non umano, non sempre agisce razionalmente, ma spesso
sulla base di istinti e di emozioni, che Vilfredo Pareto raccoglieva sotto le
nozioni di azioni non logiche, sulla base di elementi che chiamava residui e derivazioni.
Tuttavia, essendo inaccessibile da parte dei terzi l’animo del soggetto, non
siamo in grado di distinguere realmente le due ipotesi, e comunque anche l’azione
non strettamente “razionale” concorre a conformare il mondo esterno e, così, a
creare diritto oggettivo, oltre che soggettivo.
Che ciò possa dar vita a conflitti è evidente -anche se la
teoria dei giochi ha individuato la possibilità di raggiungere focal
points pacifici nelle interazioni-, ma
non si direbbe che la situazione attuale risulti particolarmente armonica,
sicché le ragioni per difenderla appaiono sempre di meno.
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