Di Fabio Massimo Nicosia
Occorre muovere dalla considerazione che il valore-lavoro
ricardiano e marxiano in realtà non
sfugge alla legge della domanda e dell’offerta, dato che se uno produce un dato
bene con il proprio lavoro è perché presuppone che vi sia una domanda al
riguardo, diversamente non lo produrrebbe (così interpretiamo la tesi a suo tempo espressa da Adolphe Landry).
Nessuno produce un bene, affrontandone dunque i costi, se
nessuno desidera quel bene, a meno che non si tratti di un’ipotesi di
autoconsumo, e quindi il valore è comunque sempre determinato
dall’apprezzamento soggettivo, dall’utilità di chi si presume
vorrà acquistarlo.
Il “lavoratore” realizzerà quindi il bene sempre nell’aspettativa
che esso sarà di utilità per qualcuno.
Capita comunque che questa produzione avrà dei costi, ed è a questi costi che va
ricondotto in ultima analisi il valore-lavoro (Josiah Warren).
Senonché questi costi ricomprendono molte cose, non solo lo
stretto necessario a realizzare il bene o il servizio.
Ad esempio, se uno decide di studiare per fare il medico,
ribadito che effettua tale scelta proprio perché ha giudicato che nel mercato
vi sarà una domanda di medici, egli avrà dovuto affrontare dei costi per la
propria preparazione, e ciascuno di essi è a propria volta, in ogni passaggio,
calato nel mercato.
Ma questi costi assumono, in tale quadro, i caratteri dell’investimento: tuttavia, non si è
titolari di un “diritto” a recuperare i costi affrontati in un investimento, dato
che un investimento è un rischio a proprio carico.
Nello stabilire il prezzo della sua prestazione, questo
medico cercherà di recuperare anche i costi affrontati con l’”investimento”,
ma, tra i rischi che affronta, vi è anche quello che altri abbia saputo
raggiungere lo stesso o miglior risultato a costi minori.
Con la conseguenza che quest’ultimo potrà praticare prezzi
più bassi, o equivalenti ma con utili superiori.
In regime di concorrenza, egli si assesterà al livello di un
prezzo immediatamente inferiore a quello di un concorrente che ha
speso-investito di più, senza raggiungere risultati migliori.
In definitiva, anche tenendo a riferimento il costo come
limite del prezzo, sarà sempre il mercato a fissare il prezzo stesso, sia nel
senso del più ampio sistema domanda-offerta con riferimento all’originaria scelta del mestiere o professione, sia nel
senso che sarà inutile esporre costi superiori a quelli che la domanda è
disponibile a sopportare.
Come dice David Friedman nel poco noto volume “Hidden Order”,
il prezzo di un bene dipenderà sempre da una combinazione dei suoi costi
oggettivi con i giudizi di utilità che i potenziali fruitori potranno
esprimerne con riferimento a esso.
A questo punto si può opporre che ripagare i costi
affrontati sia una scelta etica per evitare lo sfruttamento del produttore, ma
in realtà a tale obiezione si è già risposto, perché, a parità di esigenza
etica (ripagare il lavoratore-produttore dei costi sofferti), non si vede
perché il consumatore dovrebbe prescegliere chi abbia speso-investito di più, a
parità, ceteris paribus, di servizio
offerto e fornito.
Che cosa significa ceteris
paribus?
Significa che, ai fini del ragionamento sin qui svolto,
occorre astrarre, in termini analitici, da qualsiasi situazione particolare
delle diverse fattispecie.
Ad esempio, non solo a parità di costo di un pacchetto di
sigarette o di una lattina di bibita, ma anche nel caso in cui il costo sia addirittura
superiore, io potrò comunque scegliere di recarmi in un locale di vendita che
abbia particolari attrattive di altro genere: una cassiera carina, musica
soffusa, arredamento più coinvolgente, o qualsiasi altro elemento capace di
incidere sulla costituzione della mia preferenza.
Ciò comporta un’ulteriore difficoltà della dottrina del
valore-lavoro e di quella del costo come limite del prezzo, e cioè che, a ben
vedere, tali teorie si muovono sempre nell’ambito di un’idea di concorrenza perfetta, mentre la
concorrenza non è mai perfetta, ma semmai sempre monopolistica (Edward Hastings Chamberlain), nel senso che, se io
voglio avere a che fare con un certo Paolo Cassamagnaghi, esiste un solo Paolo
Cassamagnaghi, e tuttavia egli è in concorrenza con un certo Roberto Savino, ove
io volessi avere a che fare anche con lui: sussiste quindi tra loro
concorrenza, e tuttavia vi sono un solo Paolo Cassamagnaghi e un solo Roberto
Savino, entrambi “monopolisti” di sé medesimi.
In realtà, per esservi concorrenza perfetta, si dovrebbe
giungere a una situazione divertente, ma paradossale, ossia di due attività che
si svolgano in eodem loco ac in eodem
tempore per eade mercede, ossia una libreria che venda gli stessi libri allo stesso prezzo di
un’altra libreria che sia collocata nei suoi stessi locali!
Basta che la libreria (o l’edicola) sia dall’altra parte
della strada, che la concorrenza si trasformi in “monopolistica”, perché ciascuna di entrambe
detiene una collocazione privilegiata rispetto all’altra con riferimento a una
certa quantità o qualità di potenziali fruitori!
Tutto quanto precede vale anche a spiegare quanto abbiamo
sostenuto in passato in varie occasioni a proposito del fatto che non solo i
beni, ma persino la proprietà è fondata
sul consenso, e quindi calata a sua volta nel mercato.
Così infatti come i teorici del valore-lavoro fondano il valore
del bene sul lavoro, allo stesso modo John Locke e suoi eredi
anarco-capitalisti alla Murray Rothbard fondano sul lavoro la proprietà
(lavoro-proprietà).
In entrambi i casi si tratta dell’espressione di un’ideologia
“laburista”, che sacralizza il sacrificio del lavoro come fondamento di ogni
ricchezza. In fondo Marx non si distacca un granché da Locke, in questo, se non
nel senso che enfatizza il fatto che il lavoratore dipendente sarebbe “sfruttato”,
in quanto una quota della ricchezza da lui prodotta, il "plusvalore", che quindi dovrebbe essere
viceversa di sua “proprietà”, viene appropriata dal datore di lavoro
capitalista.
A ciò noi abbiamo opposto invece che la proprietà, esattamente
come lo scambio di beni nel mercato, si fonda sul consenso, ed è
dalla mancanza di consenso, e quindi dall'appropriazione unilaterale
della terra, che deriva semmai piuttosto lo "sfruttamento" del
lavoratore subordinato, che storicamente diviene tale solo in quanto
deprivato dalle enclosures dei suoi diritti originari sulla terra già comune (Il Capitale, Libro I, cap. XXIV).
Infatti, allorché qualcuno impianta una qualsiasi attività
in una porzione di territorio che abbia occupato, egli si autosottopone ai
giudizi di utilità degli altri, che non sono mai moralmente obbligati a
rispettare quell’attività, che per loro può anche costituire una mera
esternalità negativa (“Le parole di A non vincolano B”, come rileva il filosofo
morale Patrick Nowell-Smith).
E così, ad esempio, quando Bastiat o von Hayek affermano che
“la proprietà è utile anche per il non proprietario”, ciò vale non come assioma
a priori per tutti i casi, ma come ipotesi empirica da verificare sul campo.
In pratica, se impianterò un’attività di produzione di grano
in una zona che abbia bisogno di grano, è assai verosimile che gli altri (“la
comunità”, “il mercato”) non abbiano alcunché da ridire, altra cosa è se io
pretendessi di impiantare qualsiasi altra cosa ritenuta disutile (un muro divisorio
che mi impedisca la libera circolazione) o addirittura dannosa (ad esempio una
centrale energetica inquinante).
Qualcuno riterrà questa un’eccessiva interferenza nell’attività
del proprietario-imprenditore (ogni proprietario lo è in qualche misura, dato
che la nozione di “impresa” va intesa in senso lato appunto come qualsiasi tipo
di attività si svolga nel perimetro rivendicato), eppure si tratta di concetto
in realtà molto semplice
In effetti, un imprenditore-proprietario che non svolga
attività ritenuta utile dal mercato, vale a dire “dagli altri”, già oggi è
soggetto alla sanzione del fallimento,
con conseguente espropriazione del bene del fallito, a ulteriore riprova
che -quali che siano i "costi" da lui sopportati nell'accezione sopra
individuata- in
assenza di consenso altrui nulla è possibile per un
imprenditore-proprietario
e, quindi, per ricongiungerci al punto dal quale abbiamo preso le mosse,
allo
stesso “lavoratore”, in qualsiasi accezione si intenda questo termine.
Non foss’altro perché persino il lavoratore dipendente
sopporta il rischio di fallimento dell’imprenditore proprio datore di lavoro: la sua stabilità,
infatti, non è superiore a quella della tartaruga che poggi sul dorso di un’altra
tartaruga!
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