mercoledì 30 settembre 2015

Talikwo, Terrestrial (language)


Lesson 1 - The most accessible - and with the shortest alphabet - international auxiliary language


Talikwo - also named Terrestrial (language) - is an international auxiliary language derived from Esperanto, so it is an Esperantido. In Talikwo the word “talikwo" means "Terrestrial language".

Here’s Talikwo’s alphabet:
Letter
Valid pronunciation
a
a/e
i
i/j
k
k/g
l
l/r
o
o/u
p
p/b
s
s/z
t
t/d
w
w

The phonems of the second column are the ones of the IPA. Each letter of the Talikwo's alphabet has two names, except for “i” and “wo”.
Letter
Name of the letter
a
a/e
i
i
k
ko/go
l
lo/ro
o
o/u
p
po/bo
s
so/zo
t
to/do
w
wo

Sentences in Talikwo never start with upper-case letters. Upper-case letters are only for proper nouns.


Examples of very simple translations:
English
Esperanto
Talikwo
Terrestrial language
Lingvo tera
likwo tala
I love you
Mi amas vin
pi apas tin
The dog is good
La hundo estas bona
la owto astas powa
One Unu owo
Egg Ovo owo
Man Viro wilolo
Son Filo wilolo

Accents are always on the penultimate syllab of words, eccept for infinitives and obviously in monosyllabs. Pairs of vowels “ia” and “io” are sometimes
diphthongs. In those cases accent is not on the “i” and it is necessary mark the accent on the “a” or on the “o” with  grave accent (“à”, “ò”) or  acute accent (“á”, “ó”).

Click here to read the Lesson 2

lunedì 28 settembre 2015

Il “diritto soggettivo” come privilegio tra concessione ed espropriazione

Di Fabio Massimo Nicosia

Nella nostra realtà c’è sempre qualcuno che rivendica vecchi e nuovi “diritti”: civili, sociali, pubblici, privati, di "cittadinanza".
La cosa è ben fatta, perché più diritti ci sono meglio è, senza andare tanto per il sottile, a condizione che ci si sforzi di rispettare il criteri di restrizione dell’universalizzazione; e ciò anche se si direbbe che, mentre alcuni “diritti” limitano l’invadenza dello Stato, altri, per come vengono attualmente configurati, l’incrementano, sicché, con riferimento a tale seconda ipotesi, si richiederebbe la riformulazione dell’approccio. In ogni caso, più diritti si pretendono, più si accresce il tasso di caoticità, quindi si tratta di cosa buona e giusta nella direzione dell’implosione del sistema.
Tuttavia, tali considerazioni di carattere estremamente pratico non possono impedirci di vedere i “diritti” per quello che sono in realtà e in termini di teoria generale: dei “privilegi”.

Non esiste infatti diritto che sia effettivamente universale, ciascuno di essi patendo deroghe ed eccezioni, diffuse o circoscritte.
In genere, per godere di “diritti”, occorre trovarsi in determinate condizioni stabilite dalla legge; ad esempio, per esercitare la professione di avvocato o di giornalista, in tale secondo caso almeno da noi, occorre essere iscritto a un ordine, per aprire un bar o un negozio di abbigliamento occorre una licenza commerciale, per votare occorre non essere stati esclusi dalle liste elettorali, per poter accedere a una carica pubblica occorre non essere stato interdetto dai pubblici uffici, per poter ricorrere in giudizio occorre essere “legittimati” all’azione, per costituire una società bisogna andare dal notaio, per godere della pensione di reversibilità occorre essere sposati, per poter legiferare bisogna essere eletti, per poter giudicare bisogna avere vinto il concorso di magistratura,  per poter esercitare legittimamente la violenza, fuori dai casi di legittima difesa e stato di necessità, bisogna essere poliziotti, per poter comprare una casa occorre avere diciotto anni, per non finire in manicomio bisogna essere considerati “sani” dagli psichiatri, per non finire in prigione occorre non trasgredire le norme che stabiliscono quali siano i “reati”, per guidare l’automobile occorre una patente, stipulare un contratto di assicurazione e pagare l’imposta di bollo, per non essere bombardati è necessario non appartenere a una nazione belligerante o, per meglio dire, aggredita, per costruire occorre una concessione edilizia, per continuare a godere dell’immobile è necessario pagare un’imposta, per non vedersela espropriata occorre pagare le altre tasse, per poter surrogare la maternità bisogna andare all’estero rischiando una sanzione, per potersi esprimere occorre non ledere o urtare la sensibilità di qualcuno pena a sua volta sanzione, per poter aiutare qualcuno a esercitare attività sessuale è obbligatorio non chiedere il benché minimo compenso, altrimenti si incorrerebbe nei reati di sfruttamento o favoreggiamento della “prostituzione”, per poter costituire un’associazione bisogna non essere fascisti o comunisti a seconda dei vari paesi, per godere di un reddito occorre “lavorare”, fosse pure con spreco di risorse per tutti, per portare un’arma occorre essere autorizzati, e si potrebbero fare infiniti esempi del genere più disparato: nessun diritto è cioè incondizionato, sicché si tratta sempre appunto di “privilegi” rispetto alla generalità degli individui, siano di volta in volta i “privilegiati” i più o i meno.
Un antispecista aggiungere poi che praticamente nessuno di questi “diritti” è riconosciuto all’animale non umano, benché questi sappia porre da sé proprio diritto, con la propria condotta, quando viene messo in condizione di farlo: e così un animale cerca di scappare dal camion che lo porta la macello quando il camion si ribalta, un cane morde una mano molesta e ognuno segna, come direbbe Paul Goodman, la propria “linea”, o il proprio “territorio”, come direbbe un etologo.
In altri termini, il “diritto soggettivo”, in ordinamenti giuridici come il nostro, è sempre e solo una concessione da parte dello Stato, e quando ne vengono meno i presupposti esso costituisce oggetto di una espropriazione.
 Si dirà che questa è una delle conseguenze nefaste del cosiddetto “positivismo giuridico”, ma in realtà non è che con il “giusnaturalismo” le cose cambino di molto: in effetti, premesso che esistono tanti e diversi giusnaturalismi, dimodoché i “diritti” conferiti da ciascuno sono differenti tra loro –in realtà molti giusnaturalismi, ad esempio di matrice cattolica, attribuiscono “obblighi”, ossia sottolineano con minuzia tutto ciò che “non si può fare”, piuttosto che conferire “diritti”-, gettando la materia nella più ampia incertezza, anche il giusnaturalismo  non fissa “diritti” indiscriminatamente, ma sempre demarca, tra le facoltà naturali, quelle che costituirebbero “diritto” da quelle che non andrebbero considerate tali.
Ad esempio, mentre i giusnaturalisti cattolici si dilungano nel precisare quali attività del corpo siano “consentite” (da loro) e quali no, in altri giusnaturalismi è nota e diffusa la dottrina per la quale, per divenire proprietario di un suolo, occorre averlo previamente “lavorato”, benché tale nozione sia ampiamente indeterminata.
In altri termini, i “diritti soggettivi” sono sempre in realtà “interessi legittimi”, o, per meglio dire interessi legittimati, dallo Stato o da qualche norma cosiddetta morale, arbitrariamente o più o meno ragionevolmente, fatta propria e unilateralmente “posta” da qualcuno, al di là di ogni retorica connessa alle etiche dell’argomentazione.
All’opposto, noi riteniamo che ognuno, con la propria condotta, crei il suo proprio diritto soggettivo, frutto dell’azione razionale e deliberata che esprima criteri, espliciti o impliciti, di scelta e di orientamento.
Si dirà che l’essere umano, in analogia in questo con il non umano, non sempre agisce razionalmente, ma spesso sulla base di istinti e di emozioni, che Vilfredo Pareto raccoglieva sotto le nozioni di azioni non logiche, sulla base di elementi che chiamava residui  e derivazioni. Tuttavia, essendo inaccessibile da parte dei terzi l’animo del soggetto, non siamo in grado di distinguere realmente le due ipotesi, e comunque anche l’azione non strettamente “razionale” concorre a conformare il mondo esterno e, così, a creare diritto oggettivo, oltre che soggettivo.
Che ciò possa dar vita a conflitti è evidente -anche se la teoria dei giochi ha individuato la possibilità di raggiungere  focal points  pacifici nelle interazioni-, ma non si direbbe che la situazione attuale risulti particolarmente armonica, sicché le ragioni per difenderla appaiono sempre di meno.

sabato 26 settembre 2015

Il talikwo, la lingua terrestre


Oggi è la Giornata Europea delle Lingue. Quale giorno sarebbe più adatto per presentare il "talikwo", il progetto di lingua artificiale che sto elaborando proprio in questi giorni? Eccovi, quindi, la prima lezione di talikwo.

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La lingua internazionale ausiliaria più accessibile e con l’alfabeto più corto

Il talikwo, altrimenti chiamato (lingua) terrestre, è una lingua ausiliaria internazionale derivata dall’esperanto. È quindi un esperantido. In talikwo la parola “talikwo" significa "lingua terrestre". Ho tratto il talikwo dall’esperanto perché quest’ultimo è il progetto di lingua ausiliaria internazionale attualmente riuscito meglio sotto molteplici aspetti, innanzi tutto avendo la più vasta comunità di locutori, diffusi su tutto il globo. L’esperanto ha però un difetto, che il talikwo supera: la presenza di lettere impronunciabili da comunità uman
e non irrilevanti. I cinesi, come è noto, ad esempio, non riescono a dire la “r” ed infatti se cercate espelanto su un motore di ricerca troverete certamente pagine web relative all’esperanto e ai cinesi. Nell’arabo, i cui fonemi non sono pochi, non esiste la lettera “p” ed anche le vocali sono ridotte a tre (anche se nelle varie aree linguistiche dell’arabo parlato, chiamate dialetti, queste vocali assumono suoni diversi). Gli italiani non ha né la “h” aspirata né tantomeno la “ĥ” dell’esperanto. Gli anglofoni pronunciano la “r” in maniera totalmente differente rispetto alla “r” dell’esperanto o dell’italiano. Altra pronuncia particolare della “r” è quella francofona.

Venendo a conoscenza del toki pona (lingua interessante sotto molti punti di vista, ma non di certo praticabile se non in ambiti limitati), che ha un alfabeto di 14 lettere (alcune delle quali hanno due alternativi suoni entrambi validi, ad esempio la “l”, che può essere letta come “r”), ho pensato inizialmente di usare il suo alfabeto per creare un esperantido che avesse l’insieme di fonemi più accessibile universalmente, ma mi sono accorto in seguito che anche tale insieme di lettere e fonemi avrebbe dato problemi di pronuncia a diverse comunità umane. Per risolvere la questione ho capito che avevo bisogno di un insieme di lettere ancora più ridotto, conservando la caratteristica che possano anche essere lette in maniera differente, per rispettare diverse possibili pronunce, tutte comprensibili per tutti. Rilevante è che tale caratteristica è presente anche nell’alfabeto del lojban, la cui “r” è pronunciabile in diversi modi per renderla accessibile a locutori di diverse lingue madri. Ma anche il lojban ha lettere come la “p" ed ha più delle tre vocali dell’arabo.

Ho dovuto rivolgermi, quindi, all’alfabeto più corto al mondo. L’alfabeto che risponde a questa caratteristica è quello rotokas, escludendo l’insieme dei fonemi della lingua dei piraha, dato che non credo usino scrivere la loro lingua ed inoltre hanno una lingua che sembra non abbia la possibilità di esprimere, tanto per fare un esempio, quantità numeriche precise, non avendo praticamente neppure il concetto di “uno” distinto nettamente dal “due”.

Prendendo quindi gli insiemi dell’alfabeto del toki pona (a e i j k l m n o p s t u w) e della lingua rotokas (a e g i k o p r s t u v) e traendo da questi insiemi la loro intersezione (gli elementi che hanno in comune) ne ricaviamo l’insieme delle seguenti lettere: a e i k o p s t u. Considerando che la “l” del toki pona copre foneticamente anche il suono “r” e che viceversa la “r” del rokotas può essere pronunciata “l” e che il suono della “w” del toki pon è una “u” breve semiconsonantica (o semivocalica), possiamo giungere al seguente insieme di lettere: a e i k l o p s t u w. Ho scelto di scrivere la lettera “l” così e non come “r” perché la pronuncia più accessibile è quella di “l”. Rimangono le cinque vocali. Seguendo l’arabo e come esso viene pronunciato dai suoi locutori nelle diverse aree linguistiche la “e” possiamo assimilarla alla “a” e la “o” alla “u”. Avremo così le tre vocali dell’arabo: a i u. Penso sia meglio usare la vocale “o” come lettere dell’alfabeto, per superare la difficoltà di pronuncia della sillaba/dittongo “wu” e per evitare di confondere la vocale o/u con la w. L’alfabeto che ne risulta è il seguente:

a i k l o p s t w


Sono quindi tre vocali e sei consonanti, di cui una semico
nsonantica/semivocalica. Anche la vocale “i”, comunque, ha ruolo, come vedremo, semiconsonantico/semivocalico in alcuni contesti. Come già scritto, le nove lettere elencate possono avere tutte due possibili pronunce, tranne la “w”. Seguendo il toki pona, aggiungendo il suono delle vocali tolte ed aggiungendo anche il suono di “j" alla “i", avremo le seguenti possibili pronunce.

Tabella 1
Lettera Pronuncia valida
a a/e
i i/j
k k/g
l l/r
o o/u
p p/b
s s/z
t t/d
w w

Ne risulta così un alfabeto di nove lettere: tre vocali (di cui una a volte semivocale/semiconsonante) e sei consonanti (di cui una semivocale/semiconsonante). Ogni lettera è pronunciabile in due modi alternativi (due fonemi), entrambi validi, tranne la “w”. Tale alfabeto è accessibile da quasi qualsiasi terrestre. Le coppie di fonemi si leggono tutte così come riportate, secondo la pronuncia dei segni usati dall’IPA. Si può dire che sono così come le leggiamo in italiano tranne per alcuni aspetti: la “j” è come la “i” breve di “iato”, la “g” è quella di “gatto” (non quella di “gelato”), la “s” è quella di “sasso” (non quella di “rosa”), la “z” è invece la “s” italiana quando diciamo “rosa”, la “w” è la “u” breve di “uomo”.

Come ho già scritto questa lingua è un esperantido ed in esperanto le lettere sono 28, ognuna delle quali (tranne la “h”) corrisponde ad una lettera dell’alfabeto del talikwo, secondo la corrispondenza della seguente tabella.

Tabella 2
Alfabeto talikwo
Alfabeto esperanto
a
a e
i
i j
k
k g ĝ ĥ ĵ
l
l r
o
o u
p
p b m
s
s z c ĉ ŝ
t
t d
w
ŭ f n v

Le lettere dell’esperanto sono state messe nella tabella in maniera tale che le prime due per ogni lettera corrispondano al suono, al fonema con il quale è lecito leggere il corrispondente segno dell’alfabeto talikwo
(tranne per la “w", che ha un solo suono, quello della “ŭ” dell’esperanto, appunto). Adesso vediamo i nomi delle lettere, in talikwo (gli esperantisti li troveranno sicuramente familiari). Tutte le lettere del talikwo hanno due nomi alternativi, tranne le due che possono svolgere ruolo semivocalico/semiconsonantico, che hanno solo un nome ciascuno: “i” e “wo”. Da ciò evinciamo che la “i” si comporta solitamente da vocale e la “wo” si comporta solitamente da consonante. Vedremo in seguito quando non è così.

Tabella 3
Lettera
Nome della lettere
a
a/e
i
i
k
ko/go
l
lo/ro
o
o/u
p
po/bo
s
so/zo
t
to/do
w
wo

Si potrebbe spiegare l’alfabeto talikwo in maniera molto più semplice, ma ho voluto contemporaneamente qui raccontare la sua origine ed inoltre mettere in evidenza il legame con quello dell’esperanto,
dal quale moltissimi elementi della grammatica talikwo derivano. I vocaboli del talikwo derivano dall’esperanto, seguendo innanzi tutto la corrispondenza della tabella 2.

Ecco degli esempi:
Italiano Esperanto Talikwo
Lingua terrestre Lingvo tera likwo tala
Ti amo Mi amas vin pi apas tin
Il cane è buono La hundo estas bona la owto astas powa

Come si può facilmente notare, per tradurre dall’esperanto al talikwo non facciamo quasi altro che vedere nella tabella 2 la corrispondenza delle lettere dell’esperanto con quelle del talikwo.
Quando in esperanto abbiamo una “h” non scriveremo nulla traducendo in talikwo. Per quanto riguarda la parola “lingvo” in esperanto l’abbiamo tradotta con “likwo”, in base alla regola secondo la quale in presenza di due o tre consonanti vicine, se due di esse sono uguali la prima cade. Non abbiamo mai doppie in talikwo. Faccio notare anche che le frasi in talikwo non iniziano mai per maiuscola, riservando le maiuscole ai nomi propri.

Con questo sistema, il vocabolario del talikwo esiste già ed è infatti quello dell’esperanto “talikwizzato”. Ciò vale sempre, tranne per ciò che esporrò in queste lezioni di talikwo. Dato che le lettere del talikwo sono solo nove, avremo un maggior numero di parole aventi più significati, usando il sistema che ho appena descritto di creazione del vocabolario talikwo a partire dall’insieme delle parole dell’esperanto.


Esempi:
Italiano Esperanto Talikwo
uno unu owo
uovo ovo owo
uomo viro wilolo
figlio filo wilolo

“Owo” significa quindi in talikwo sia “uno” che “uovo”, “wilolo” significa sia “uomo” che “figlio”. Ciò che chiarirà il significato della parola sarà quindi il contesto. Il fatto che il talikwo sia più ambiguo dell’esperanto fa sì che traducendo dall’esperanto (ma anche da qualsiasi altra lingua) dovremo stare attenti al significato del testo risultante, aggiungendo, se è il caso, circonlocuzioni o sinonimi per chiarire il senso di ciò che intendiamo esprimere. Il talikwo non ha di certo il pregio del poter esprimersi in poche parole, ma non al punto del toki pona, in cui è praticamente impossibile esprimere cose basilari o è molto difficile indicare quantità numeriche che vadano oltre le poche decine.


L’accento in talikwo cade, come in esperanto, sulla penultima sillaba, tranne che per i verbi all’infinito (come vedremo nella lezione relativa ai verbi) ed ovviamente nei monosillabi. Attenzione ai dittonghi: le coppie di vocali “ia” e “io” sono a volte dittonghi, quindi l’accento non cade sulla “i”, che si comporta in questi casi come consonante e l’accento sulla “a” o sulla “o” vanno segnati, con un accento grave (“à”, “ò”) o acuto (“á”, “ó”) indifferentemente.

Talikwo, (linguaggio) terrestre - Lezione 2

giovedì 24 settembre 2015

Antistatalisti e di sinistra

  Di Fabio Massimo Nicosia
Ogni tanto si discute ancora su che cosa sia di destra e che cosa sia di sinistra, e se abbia senso ancora una tale distinzione. Trattandosi di parole, il loro significato va ricostruito storicamente e nella verifica empirica dell’oggi. Salvo errore, i termini “destra” e “sinistra” nascono con la Rivoluzione Francese, per rispecchiare le collocazioni parlamentari dei diversi schieramenti. Sicché noi possiamo dire, con Murray N. Rothbard, che a destra si situavano gli statalisti dell’ancien régime, mentre a sinistra si collocavano i liberali rivoluzionari che si contrapponevano loro.
Un primo elemento salta dunque agli occhi: la sinistra moderna (prima della modernità questo linguaggio non era noto) nasce liberale e antistatalista. Quel liberalismo ha figliato via via radicali e anarchici, sicché gli uni e gli altri sono di sinistra in questo senso.
Tuttavia, dato che il liberalismo ha come fondamento l’idea dei pari diritti, in questo progredire a sinistra è emersa anche un’idea di eguaglianza, da coniugarsi con quella di libertà. Ciò è particolarmente evidente in quelle correnti anarchiche, che massimizzano tanto il concetto di libertà, quanto quello di eguaglianza. 
Che cosa ha creato un cortocircuito, in questo processo di assimilazione della libertà all’eguaglianza dei diritti? Il fatto che siano sopravvenuti, all’interno delle correnti di sinistra, orientamenti volti esplicitamente a utilizzare lo strumento-Stato per realizzare quegli obiettivi di eguaglianza, per conferire loro certezza e stabilità nel tempo, quando la sfida è proprio destatalizzarli. 
In ciò ha fatto spicco ovviamente il marxismo. Ma non ci si stancherà di ripetere che anche Marx era mosso e animato da intenti e sentimenti libertari, avendo più volte precisato che alla fase della presa del potere e della dittatura del proletariato avrebbe dovuto seguire un processo di dissoluzione dell’apparato statale come organismo autonomo rispetto alla società, e, così, sopravvenire un mondo di libero dispiegamento dei bisogni individuali, senza alcuna mediazione burocratica, almeno nel modello inizialmente concepito. Ora, Marx prevedeva ciò su base economica, mentre è più facile che ciò avvenga oggi per via giuridico-istituzionali, sotto i colpi delle contraddizioni intrinseche all'idiocrazia, che si sforza di organare i poteri per via privatistica, cercando di eludere la questione fondamentale che non è concepibile di intrattenere relazioni necessitate con organismi di diritto privato.
Si noti, peraltro, che i marxisti avevano ben presente la distinzione tra Stato nelle mani dell’avversario e Stato nelle mani proprie. I più lucidi tra i socialisti statalisti, infatti, non confondevano i due piani, e si opponevano a processi di estensione degli ambiti di competenza statuali offerti dai conservatori come contropartita ai ceti deboli. Ma rivendicavano solo per sé, sulla base della propria linea politica direttrice, che si presume ideologicamente “pura”, siffatto compito di organamento del sistema in nome degli interessi della classe sfruttata.
Convivono perciò a sinistra due pulsioni, una verso la libertà e una verso l’eguaglianza, salvo che anche la libertà presuppone almeno un’eguaglianza, quella dei diritti. Se anche si ritenesse che la Grundnorm libertaria fosse “fate quel che vi pare”, tale norma sarebbe eguale per tutti, e quindi norma di eguaglianza.
Se tutto ciò è sinistra, che cos’è allora “destra”? Se le distinzioni hanno un senso, e un senso devono averlo, altrimenti non godremmo di due parole distinte, dobbiamo ritenere che destra sia l’esatto opposto: ordine, disciplina, gerarchia, contrapposti al “caos” che deriverebbe dalla loro assenza o dissoluzione.
Qui emerge nuovamente il problema dello Stato. Perché la destra, a differenza di come pure si potrebbe concepire in astratto, non immagina il formarsi di gerarchie quali espressioni spontanee della società, come avverrebbe ad esempio con riferimento alle gerarchie fluide di un libero mercato, ma sclerotizza dette gerarchie attraverso il loro incardinamento, anche sotto il profilo delle categorie economiche, nell’apparato statale. Il modello è quello fascista, dello Stato che si incardina fino al livello del capo-condominio. La società è quindi interamente burocratizzata, dimostrandosi all’opposto tanto del principio di libertà, quanto di quello di eguaglianza.

Tutto ciò in teoria. Nella pratica noi vediamo che destre e sinistre sono oggi egualmente stataliste, perché le une e le altre ritengono di ottenere protezione per gli interessi che rappresentano dalla mediazione e dall’intervento dello Stato. Lo Stato è una costante camera di compensazione tra interessi, in arbitrato permanente, in sé neutrale tra i diversi interessi che riescono ad accedere alle sue leve, salvo la sua autonoma capacità di esprimerne i vari rapporti di forza. La conseguenza è che, sommandosi le pulsioni stataliste a tutela degli interessi "di destra" a quelle a tutela degli interessi  "di sinistra", si amplia la quota complessiva di intervento poliziesco, burocratico, penalistico.

Al di là di questo, accade però anche che lo Stato si rivela sempre più inadeguato a tale bisogna di mediazione. In realtà, il conflitto è oggi tra interessi che richiedono l’intervento dello Stato in un certo ambito, ma vogliono che receda da un altro, e viceversa. Sono poche le forze che richiedono la sua recessione in tutti i campi contemporaneamente, anche perché questa posizione rischierebbe di peccare di astrattismo e non considerazione e scelta tra gli interessi concreti. 
I liberali-liberisti di destra, ad esempio, che chiedono che lo Stato inefficiente si ritragga dall’economia, chiedono però anche altrettanto spesso più Stato nel campo della sicurezza, dell’ordine pubblico, della pena, del carcere, salvo nelle punte radicali rivendicare l’armamento privato, di cui però non sembra cogliersi il risvolto più interessante, la messa in discussione del monopolio della forza da parte dello Stato. 
D'altra parte, quando l'antistatalista di destra si approccia allo Stato, lo fa proiettando su di esso la propria concezione "proprietaria", sicché, ad esempio, lo Stato dovrebbe difendere i suoi confini dall'immigrazione, così come un proprietario ha tutto il diritto di esercitare lo ius excludendi alios.
La sinistra difende invece lo Stato del welfare e dei diritti sociali per tutti, ma balbetta quando deve spiegare dove si prendono i soldi per mantenerlo, problema che la destra ha meno, visto che è meno attaccata ai diritti sociali. Non è questa la sede per riproporre la nostra proposta di riforma al riguardo della contabilità pubblica, che attualmente occulta grande parte delle ricchezze comuni e non le esprime in bilancio, il che potrebbe consentire di superare le varie obiezioni che la sinistra non è oggi in grado di affrontare efficacemente. 
Vi è poi il campo dei diritti civili. Il fatto che i diritti civili siano poco sentiti dalla politica deriva forse dal fatto che sono diritti senza spese, ma che incidono profondamente sul costume. Quindi vi è un duplice disincentivo ad occuparsene, dato che la politica non ha nulla da mangiare o guadagnare su di essi, e quindi non si vede perché dovrebbe assumersi la conseguente responsabilità di modificare radicalmente il costume, se non quando il costume si sia talmente evoluto, che non si possa fare altro che adeguarvisi. 
Anche qui, sic stantibus rebus, si distinguono una destra e una sinistra, in attesa che si possano fronteggiare una posizione puramente statalista, di monopolio culturale, con una puramente anti-statalista. Prendiamo il noto caso del matrimonio gay o egualitario. Alla luce delle qualificazioni esposte, ricaviamo che si tratta di proposta chiaramente di sinistra, visto che aumenta il tasso di libertà e di eguaglianza dei diritti tra gli individui, introducendo per sovrammercato elementi di “caos”, che molti di destra com’è noto non apprezzano nei costumi consolidati. 
L’antistatalista “di destra”, inegualitario e contrario all’estensione dei “diritti”, si rivela per il fatto di sostenere che il matrimonio gay sarebbe istituto “statalista”, in quanto volto a estendere la presenza dello Stato in nuovi ambiti. Ora, reversibilità della pensione a parte, che è argomento di diritto pensionistico che non può non essere identico per tutti i cittadini, è appena il caso di notare che il matrimonio gay è solo un suggello senza spese -quindi non implicante coercizione tributaria- o con poche spese da parte dello Stato. Non più di quanto lo sia il matrimonio eterosessuale. E infatti quegli antistatalisti di destra, talora, ma non sempre, si rifugiano nell’affermazione di essere contro anche il matrimonio di Stato eterosessuale. Naturalmente non fanno nulla in tale direzione, perché il calo nel ricorso all’istituto del matrimonio è dovuto a evoluzioni sociali, che non hanno nulla a che vedere con l’irrilevante propaganda di quei pochi libertari di destra coerenti. Di certo, questi anti-statalisti non mettono la stessa foga contro il matrimonio eterosessuale, di quella che mettono contro il matrimonio omosessuale, e in questo si manifesta il loro conservatorismo culturale, oltre che il carattere strabico del loro anti-statalismo. 
Il libertario di sinistra mette invece in discussione anche il conservatorismo culturale, perché questo procura limitazioni di libertà e costi anche tangibili per il singolo individuo, anche se l’ideale sarebbe collocare libertari tanto “di destra”, quanto “di sinistra”, in un unico meta-livello, che consentisse la libera e spontanea espressione nella società di preferenze tanto conservatrici e tradizionaliste, quanto innovatrici e di sperimentazione, ponendo le une in concorrenza con le altre; ma non siamo ancora a questo punto, dato che gli stili di vita alternativi hanno ancora parecchia strada da compiere per farsi accettare dall’abitudine.
Un altro esempio è dimostrato dall'anti-proibizionismo. Anche qui non si tratta solo di "droghe", ma di due visioni della società, una che affida la tutela della morale al diritto penale, un'altra contrapposta che l'affida al libero mercato, dato che non proibire significa consentire tutte le scelte alternative co-possibili, ma ciò ancora una volta non aggrada ai conservatori culturali, che si sentono minacciati dal "permissivismo", sicché, pure quando non invocano l'intervento dello Stato in questo ambito, non si fanno particolarmente battaglieri contro. E ciò a tacere del fatto che un antiproibizionismo di mercato sarebbe anche una forma di redistribuzione del reddito, nella misura in cui aprisse a molti la strada della coltivazione, oltre che dell'autocoltivazione, tanto per stare solo all'esempio delle droghe, che si potrebbe estendere ad altro. 
Solo nella prospettiva in cui lo Stato venisse coerentemente fronteggiato in tutti i suoi aspetti da un movimento libertario a tutto campo, la dicotomia destra-sinistra potrebbe ritenersi superata in un anti-statalismo coerente, ma, come detto, non è venuto ancora il momento di ritenere matura questa prospettiva, e ciò proprio per le incorenze interne al mondo libertario. 
Lo stesso vale per l’economia. Sfugge a molti che il più ampio e diffuso libero mercato è in realtà un’istituzione egualitaria e democratica, perché pone a disposizioni di tutti le risorse naturali iniziali per poter compete in quel libero mercato, secondo noi esteso al conio monetario. Purtroppo noi vediamo invece che oggi le parole d’ordine del libero mercato sono utilizzate da chi detiene il controllo monopolistico o quasi-monopolistico di quelle risorse, contraddicendo le proprie stesse premesse, dato che monopolio è l’opposto di mercato libero. Monopolio, si badi, non frutto della libera competizione, ma reso strutturale dal monopolio statuale sul territorio e, conseguentemente, da quelle che una volta si chiamavano “patenti regie”: concessioni, brevetti, copyright, e già il mondo delle concessioni dice tutto, perché è difficile che un grande concentrato capitalistico-finanziario non sia oggi concessionario in un qualche senso di un qualche bene o servizio pubblico. 
In definitiva, non è venuto ancora il momento di definirci puramente e semplicemente “anti-statalisti”, perché non siamo ancora alla fine della storia, e ancora si fronteggiano interessi tra i quali la scelta appare ineludibile. Sicché crediamo, in conclusione, di aver sufficientemente argomentato perché noi oggi riteniamo di doverci considerare al tempo stesso “anti-statalisti” e “di sinistra”.

lunedì 14 settembre 2015

Valore-lavoro, costo come limite del prezzo, concorrenza e proprietà calata nel mercato

Di Fabio Massimo Nicosia

Occorre muovere dalla considerazione che il valore-lavoro ricardiano e marxiano  in realtà non sfugge alla legge della domanda e dell’offerta, dato che se uno produce un dato bene con il proprio lavoro è perché presuppone che vi sia una domanda al riguardo, diversamente non lo produrrebbe (così interpretiamo la tesi a suo tempo espressa da Adolphe Landry).
Nessuno produce un bene, affrontandone dunque i costi, se nessuno desidera quel bene, a meno che non si tratti di un’ipotesi di autoconsumo, e quindi il valore è comunque sempre determinato dall’apprezzamento soggettivo, dall’utilità di chi si presume vorrà acquistarlo.
Il “lavoratore” realizzerà quindi il bene sempre nell’aspettativa che esso sarà di utilità per qualcuno.
Capita comunque che questa produzione avrà dei costi, ed è a questi costi che va ricondotto in ultima analisi il valore-lavoro (Josiah Warren).
Senonché questi costi ricomprendono molte cose, non solo lo stretto necessario a realizzare il bene o il servizio.
Ad esempio, se uno decide di studiare per fare il medico, ribadito che effettua tale scelta proprio perché ha giudicato che nel mercato vi sarà una domanda di medici, egli avrà dovuto affrontare dei costi per la propria preparazione, e ciascuno di essi è a propria volta, in ogni passaggio, calato nel mercato.
Ma questi costi assumono, in tale quadro, i caratteri dell’investimento: tuttavia, non si è titolari di un “diritto” a recuperare i costi affrontati in un investimento, dato che un investimento è un rischio a proprio carico.
Nello stabilire il prezzo della sua prestazione, questo medico cercherà di recuperare anche i costi affrontati con l’”investimento”, ma, tra i rischi che affronta, vi è anche quello che altri abbia saputo raggiungere lo stesso o miglior risultato a costi minori.
Con la conseguenza che quest’ultimo potrà praticare prezzi più bassi, o equivalenti ma con utili superiori.
In regime di concorrenza, egli si assesterà al livello di un prezzo immediatamente inferiore a quello di un concorrente che ha speso-investito di più, senza raggiungere risultati migliori.
In definitiva, anche tenendo a riferimento il costo come limite del prezzo, sarà sempre il mercato a fissare il prezzo stesso, sia nel senso del più ampio sistema domanda-offerta con riferimento all’originaria  scelta del mestiere o professione, sia nel senso che sarà inutile esporre costi superiori a quelli che la domanda è disponibile a sopportare.
Come dice David Friedman nel poco noto volume “Hidden Order”, il prezzo di un bene dipenderà sempre da una combinazione dei suoi costi oggettivi con i giudizi di utilità che i potenziali fruitori potranno esprimerne con riferimento a esso.
A questo punto si può opporre che ripagare i costi affrontati sia una scelta etica per evitare lo sfruttamento del produttore, ma in realtà a tale obiezione si è già risposto, perché, a parità di esigenza etica (ripagare il lavoratore-produttore dei costi sofferti), non si vede perché il consumatore dovrebbe prescegliere chi abbia speso-investito di più, a parità, ceteris paribus, di servizio offerto e fornito.
Che cosa significa ceteris paribus?
Significa che, ai fini del ragionamento sin qui svolto, occorre astrarre, in termini analitici, da qualsiasi situazione particolare delle diverse fattispecie.
Ad esempio, non solo a parità di costo di un pacchetto di sigarette o di una lattina di bibita, ma anche nel caso in cui il costo sia addirittura superiore, io potrò comunque scegliere di recarmi in un locale di vendita che abbia particolari attrattive di altro genere: una cassiera carina, musica soffusa, arredamento più coinvolgente, o qualsiasi altro elemento capace di incidere sulla costituzione della mia preferenza.
Ciò comporta un’ulteriore difficoltà della dottrina del valore-lavoro e di quella del costo come limite del prezzo, e cioè che, a ben vedere, tali teorie si muovono sempre nell’ambito di un’idea di concorrenza perfetta, mentre la concorrenza non è mai perfetta, ma semmai sempre monopolistica (Edward Hastings Chamberlain), nel senso che, se io voglio avere a che fare con un certo Paolo Cassamagnaghi, esiste un solo Paolo Cassamagnaghi, e tuttavia egli è in concorrenza con un certo Roberto Savino, ove io volessi avere a che fare anche con lui: sussiste quindi tra loro concorrenza, e tuttavia vi sono un solo Paolo Cassamagnaghi e un solo Roberto Savino, entrambi “monopolisti” di sé medesimi.
In realtà, per esservi concorrenza perfetta, si dovrebbe giungere a una situazione divertente, ma paradossale, ossia di due attività che si svolgano in eodem loco ac in eodem tempore per eade mercede, ossia una libreria che venda gli stessi libri allo stesso prezzo di un’altra libreria che sia collocata nei suoi stessi locali!
Basta che la libreria (o l’edicola) sia dall’altra parte della strada, che la concorrenza si trasformi in  “monopolistica”, perché ciascuna di entrambe detiene una collocazione privilegiata rispetto all’altra con riferimento a una certa quantità o qualità di potenziali fruitori!
Tutto quanto precede vale anche a spiegare quanto abbiamo sostenuto in passato in varie occasioni a proposito del fatto che non solo i beni, ma persino la proprietà è fondata sul consenso, e quindi calata a sua volta nel mercato.
Così infatti come i teorici del valore-lavoro fondano il valore del bene sul lavoro, allo stesso modo John Locke e suoi eredi anarco-capitalisti alla Murray Rothbard fondano sul lavoro la proprietà (lavoro-proprietà).
In entrambi i casi si tratta dell’espressione di un’ideologia “laburista”, che sacralizza il sacrificio del lavoro come fondamento di ogni ricchezza. In fondo Marx non si distacca un granché da Locke, in questo, se non nel senso che enfatizza il fatto che il lavoratore dipendente sarebbe “sfruttato”, in quanto una quota della ricchezza da lui prodotta, il "plusvalore", che quindi dovrebbe essere viceversa di sua “proprietà”, viene appropriata dal datore di lavoro capitalista.
A ciò noi abbiamo opposto invece che la proprietà, esattamente come lo scambio di beni nel mercato, si fonda sul consenso, ed è dalla mancanza di consenso, e quindi dall'appropriazione unilaterale della terra, che deriva semmai piuttosto lo "sfruttamento" del lavoratore subordinato, che storicamente diviene tale solo in quanto deprivato dalle enclosures dei suoi diritti originari sulla terra già comune (Il Capitale, Libro I, cap. XXIV).
Infatti, allorché qualcuno impianta una qualsiasi attività in una porzione di territorio che abbia occupato, egli si autosottopone ai giudizi di utilità degli altri, che non sono mai moralmente obbligati a rispettare quell’attività, che per loro può anche costituire una mera esternalità negativa (“Le parole di A non vincolano B”, come rileva il filosofo morale Patrick Nowell-Smith).
E così, ad esempio, quando Bastiat o von Hayek affermano che “la proprietà è utile anche per il non proprietario”, ciò vale non come assioma a priori per tutti i casi, ma come ipotesi empirica da verificare sul campo.
In pratica, se impianterò un’attività di produzione di grano in una zona che abbia bisogno di grano, è assai verosimile che gli altri (“la comunità”, “il mercato”) non abbiano alcunché da ridire, altra cosa è se io pretendessi di impiantare qualsiasi altra cosa ritenuta disutile (un muro divisorio che mi impedisca la libera circolazione) o addirittura dannosa (ad esempio una centrale energetica inquinante).
Qualcuno riterrà questa un’eccessiva interferenza nell’attività del proprietario-imprenditore (ogni proprietario lo è in qualche misura, dato che la nozione di “impresa” va intesa in senso lato appunto come qualsiasi tipo di attività si svolga nel perimetro rivendicato), eppure si tratta di concetto in realtà molto semplice
In effetti, un imprenditore-proprietario che non svolga attività ritenuta utile dal mercato, vale a dire “dagli altri”, già oggi è soggetto alla sanzione del fallimento, con conseguente espropriazione del bene del fallito, a ulteriore riprova che -quali che siano i "costi" da lui sopportati nell'accezione sopra individuata- in assenza di consenso altrui nulla è possibile per un imprenditore-proprietario e, quindi, per ricongiungerci al punto dal quale abbiamo preso le mosse, allo stesso “lavoratore”, in qualsiasi accezione si intenda questo termine.
Non foss’altro perché persino il lavoratore dipendente sopporta il rischio di fallimento dell’imprenditore  proprio datore di lavoro: la sua stabilità, infatti, non è superiore a quella della tartaruga che poggi sul dorso di un’altra tartaruga!