lunedì 11 giugno 2012

Il corporativismo secondo Borruso


Silvano Borruso mi chiede via posta elettronica di pubblicare, se ritengo opportuno, il seguente suo articolo.
Ritengo sì che sia da pubblicare, anche se anticipando fin da subito che ne scriverò uno in risposta per esprimere il mio punto di vista in proposito.
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PARTITOCRAZIA, SINDACATO E CORPORAZIONE
        
Breve Storia del Partito Politico
Il partito politico moderno, cioè quell'organizzazione che è passata da una sedicente 'rappresentanza' a una evidente dittatura, è con noi da tre secoli. E dato che, secondo Gonzague de Reynold,
l'oblìo della storia... sarebbe per la società quello che è la perdita della memoria per l'individuo[1]
facciamo un breve excursus nella storia di questa istituzione, per capirne di più.
        Trasportiamoci nella Londra del 1694. L'invasore principe consorte della regina Maria, l'olandese Guglielmo III d'Orange, ottiene l'assenso reale per la fondazione della Banca “d'Inghilterra” e per l'istituzione del Debito Pubblico.
"Questo statuto", scrive A.M.Ramsey, "consegnò a un comitato anonimo la prerogativa reale di batter moneta; intronizzò l'oro come base di ricchezza; e permise agli usurai internazionali di garantire i loro prestiti con le tasse del paese invece che con le promesse incerte di un capo di stato o di un potentato anch'esso incerto...
L'unione politica ed economica con l'Inghilterra fu imposta da lì a poco alla Scozia per mezzo di diffusa corruzione, e in barba alle proteste formali di ogni contea e municipio... l'artiglio dell'usuraio stringeva ora tutta la Gran Bretagna.        
Ma c'era un pericolo: i membri del nuovo Parlamento Unito avrebbero prima o poi sfidato il nuovo 'sistema' nello spirito dei loro antenati.
Per difendersi dal pericolo fu avviato il sistema partitocratico (neretto mio) per frustrare la reazione nazionale e permettere agli usurai il divide et impera. Il loro potere finanziario, da recente acquisito, avrebbe loro permesso di far salire alla ribalta i loro uomini e le loro politiche, sostenuti dai loro giornali, opuscoli e conti in banca... L'oro doveva diventare la base dei prestiti, per un ammontare di dieci volte la quantità depositata. Al 3%, 100 sterline in oro procuravano così al loro padrone 30 sterline all'anno, senza dover fare altro sforzo che quello di riempire dei registri. Ma chi le 100 sterline le aveva sotto forma di terra, doveva lavorare ogni ora di luce perchè gli rendessero al massimo un 4%. Il processo doveva inesorabilmente rendere milionario l'usuraio, e rovinare il terratenente inglese e scozzese.[2]
        Questo fu l'inizio.Un secolo dopo i partiti politici si istituivano nel Continente a partire dalla Rivoluzione in Francia. Gli ostacoli da abbattere colà, oltre ai tre Stati, erano le Corporazioni (in Inghilterra queste erano già state distrutte a cominciare da Enrico VIII nel secolo XVI). Il decreto Allarde del 1789 ne decretò la sparizione, e la Loi Chapelier (1791) abolì addirittura il diritto di associazione, stabilendo il “principio” che non vi dovessero essere organi intermedi tra il cittadino e lo Stato. Eccezion fatta, s'intende, per i partiti politici, che pochi anni dopo avrebbero fatto il loro ingresso anche in Italia.
        La scusa era sempre la stessa: 'rappresentare' quella porzione di popolo che fosse d'accordo con la loro politica. Ma la realtà era ben diversa, e se ne accorse Antonio Rosmini, che nel 1839 scrisse:
“Ciò che impedisce la giustizia e la moralità sono i partiti politici. Ecco il verme che corrode la società, il male che confonde le previsioni de' filosofi, e rende vane le più belle teorie. Conciossiachè i partiti sono formati da uomini che non si prefiggono nel loro operare né quello che è giusto, né quello che è moralmente onesto e virtuoso.
Il partito ha per iscopo il proprio vantaggio, non la giustizia, l'equità, la vita morale. Partito dunque ed equità, giustizia e virtù, sono cose opposte"[3]
        Ma ci vuole altro che gli ammonimenti di un filosofo per convincere persone anche intelligenti. Una delle quali fu Hilaire Belloc (1870-1953), che nel 1906 aveva ancora tanta fiducia nel Party System da presentarsi come candidato per la circoscrizione elettorale di Salford, Manchester, per il partito liberale.
        Venne eletto, ma non durò. Belloc vide con i suoi occhi cosa c'era dietro il Party System, e nel 1910 non si ripresentò. Nel 1911, insieme a Cecil Chesterton (fratello del grande G.K. e caduto in guerra nel 1918) pubblicò The Party System che rimane, per quanto io sappia, un insuperato atto di accusa contro la partitocrazia.
        La tesi è che il partito politico, lungi dal rappresentare gli elettori, rappresenta interessi occulti, i quali non hanno scrupoli nel sostenere finanziariamente tanto il partito al potere quanto quello all'opposizione con il sostegno di uomini inetti, corrotti e quindi sotto minaccia permanente di ricatto, costretti quindi ad abbassarsi a livelli intellettuali infimi.
"Bisogna notare" -scrive Belloc- "che l'effetto del sistema partitocratico sugli uomini politici anche più abili, è di deprimere il loro livello intellettuale. È tutt'affatto incredibile che uomini come Mr Asquith e Mr Lloyd George, Mr Balfour e Mr F.E.Smith possano in qualunque circostanza proferire le imbecillità che costantemente adornano i loro discorsi pubblici. Non parlerebbero così a una cena, o nei loro club. Ma lo standard intellettuale in politica è così basso che uomini di capacità mentale media devono piegarsi in due per raggiungerne il livello"[4].
        La tesi di Belloc ebbe una triste conferma nel 1914, all'inizio della Grande Guerra. Gli eventi sportivi come le Olimpiadi e i campionati di calcio vennero sospesi, ma non le gare ippiche. Mentre la mitraglia falciava giornalmente vittime su tutti i fronti in numero spesso uguagliante quello dell'ecatombe di Hiroshima, i fantini di Lord Rosebery continuavano a spronare le loro monte sulle piste di Ascot. Ed è che il buon Lord aveva minacciato di sospendere i finanziamenti di ambedue i partiti se gli uomini di governo avessero osato privarlo, lui e i suoi degni compari, dello sport dei re, Grande Guerra o non Grande Guerra.
        Nell’autobiografia del 1928 Mussolini scriveva:
“Tutte le idee dei cosiddetti partiti storici sembravano vestiti larghi oltremisura, sformati, fuori moda e inutili. Erano divenuti sgargianti e insufficienti, incapaci di adattarsi ai colpi di scena politici, alla storia e alla vita moderna"[5]
        Il termine 'partito' è il participio passato di partire, dividere. È evidente quindi che la necessaria pluralità partitica non possa, né di fatto abbia mai rappresentato la totalità di un popolo, né promossone l’unità politica.Si è visto invece come i partiti italiani siano riusciti ad usurpare il potere dello Stato, così da imporre che
“Tutto avvenga nei partiti, tutto si decida attraverso i partiti, nulla esista fuori dai partiti, nulla contro i partiti. Così ogni altro gruppo, ogni altra forza sociale, economica, culturale, ogni categoria, non ha un proprio canale per arrivare istituzionalmente e costituzionalmente allo Stato, per inserirsi nella gestione dello Stato, per tutelare e organizzare nello Stato i propri interessi.”[6]
Il testo di La Grua appena citato riecheggia quello di Marcel Clément.[7] Nel lontano 1958 costui pubblicava La Corporation Professionnelle, dove perorava la causa della corporazione professionale, cioè l’inserimento delle forze vive del lavoro nazionale in politica. Tanto lui quanto A.M. La Grua, però, propongono le corporazioni come facenti parte dello Stato, in chiave sopratutto anticomunista. Proponevano un cambio dall’alto, cioè da una volontà politica mai osservata di fatto.
Quello che però è successo, a cominciare dal 1945 per arrivare al punto algido con la crisi finanziaria del 2008, è stato che tutti i partiti politici, europei e non, si sono venduti anima e corpo ai diktat della finanza, tradendo pertanto i loro adepti illusi di trovare protezione in qualche “onorevole” considerato come poderoso di turno.
È arrivato il tempo di studiare, capire, e mettere in atto l’istituto della corporazione professionale, unico a poter fare da rappresentante vero del popolo che lavora, e pertanto temuto da coloro che riescono a vivere a spese di quel popolo, e bene per giunta.
Addentriamoci quindi nella sua storia e struttura così da ravvivarla e rinforzarla, rendendo vera l’espressione “popolo sovrano” millantata dalla Costituzione ma calpestata di fatto da chi ha ingannato il popolo durante gli ultimi 200 e più anni.
Per fare ciò bisogna cominciare con il liberarsi di una serie di pregiudizi malauguratamente estesi tra i più. Scriveva Clément a proposito della Loi Chapelier:
“Rimase un dogma politico nei paesi occidentali per un intero secolo, e i suoi effetti funesti si sono prolungati fino ai nostri giorni sotto la forma di anatema intellettuale scagliato sul nome di corporazione"[8].
        Gli storiografi incastonati condannano la corporazione millenaria[9] ripetendo accuse trite e ritrite come per esempio che praticasse monopoli scandalosi, che fosse egoista e sfruttatrice, nemica del progresso, ecc. Il che è parzialmente vero, ma non tanto da far buttare via il bebè  con l'acqua sporca.
        Questa avversione di antica data viene esacerbata, dal 1945 ad oggi, dalla considerazione viscerale secondo cui furono i 'dittatori' della prima metà del secolo XX a mettere in pratica lo stato corporativo.
        Per non cadere nella trappola di una argomentazione ad hominem, analizziamo non chi fece questo o quello, ma come lo fece, che successo ebbe, e perchè l'esperimento fallì.
        Diciamo subito che il Magistero pontificio non nega le accuse di codesti storiografi alla corporazione. Pio XI disse:
“Che questo ordine (corporativo) sia perito da lungo tempo, non fu dovuto alla sua incapacità di sviluppo e adattamento a bisogni e circostanze cambianti, ma al fatto che gli uomini si fossero induriti nell'amor proprio, e avessero rifiutato di estendere quell'ordine, com'era loro dovere, di pari passo con l'incremento della popolazione; oppure, ingannati dall'attrazione di una falsa libertà e da altri errori, divenissero intolleranti di qualsiasi autorità e tentassero di liberarsi da qualsiasi forma di controllo"[10]
Prima di vedere le ragioni del fallimento degli esperimenti corporativi degli anni 1920-1930, facciamo un excursus nella storia della corporazione, parallelo a quello fatto poc’anzi per il partito politico.
Breve Storia della Corporazione
L’origine della corporazione, tanto in Cina quanto in Europa, fu l’istinto gregario, principalmente difensivo, di gruppi che intuiscono come l’unione faccia la forza, mettendosi quindi in grado di difendersi da pressioni, soprusi e violenze varie. Solo in Europa, però, le corporazioni ebbero funzione politica, efficacemente controllando dal basso il potere regio. Le tasse, per esempio, andavano patteggiate, non imposte dall’alto arbitrariamente come avviene oggi. Le pagavano le corporazioni (in Spagna i fueros) proteggendo così individui e famiglie da esazioni ingiuste. Dal punto di vista fiscale la società medievale era molto più democratica di quella odierna proprio nel senso etimologico, già ventilato, del termine.
Nell’impero romano non vi erano corporazioni, ma la difesa della persona era garantita: si pensi ai 470 militi mobilizzati da un tribuno per difendere Paolo dalla congiura di 40 giudei nel breve tragitto Gerusalemme-Cesarea.[11] Ma con lo sfaldarsi dell’impero, la vita di chi voleva vivere lavorando diventava sempre più difficile.
Nel settore agricolo non c’era problema: l’agricoltore pagava l’annona, cioè quattro settimane di produzione, come controparte delle spese di amministrazione e difesa accollatesi dal signore feudale, e l’assistenza sociale la pagava la rendita di monasteri, abbazie, ecc.
Non si stava proprio male: un agricoltore del XV secolo, in Inghilterra, lavorava per altre 14 settimane per vitto, vestiario e alloggio; altre dieci per gli extra come birra, prosciutto ecc. Le restanti 18 le impiegava o costruendo cattedrali o producendo oggetti d’artigianato (che oggi fanno bella mostra di sé solo nei musei) o facendosi i fatti suoi.
Le corporazioni furono un fenomeno cittadino: era colà che bisognava unirsi per difendersi dalla possibile violenza fisica dei nobili circonvicini, dalle esazioni arbitrarie dei signori feudali che controllavano le campagne, e da bande di malviventi che scorrazzavano incontrollate. Gli operatori economici si conoscevano già nelle confraternite, e da queste svilupparono le corporazioni.
Le funzioni da espletare erano:
  1. Doveri civici di difesa e manutenzione delle strutture cittadine;
  2. Regolamentazione dei prezzi secondo criteri di giustizia;
  3. Proibizione di fare pubblicità e concorrenza riducendo i prezzi;
  4. Proibizione di incetta di materie prime;
  5. Obbligo di mantenere il segreto professionale;
  6. Restrizione di appartenenza, così assicurando il pieno impiego;
  7. Garanzia di qualità per i  prodotti dei membri della corporazione;
  8. Regolamentazione delle ore e condizioni di lavoro;
  9. Assicurazione contro la malattia, i viaggi e la vedovanza.
Le corporazioni non sorsero senza opposizione: già nel nono secolo il loro sviluppo veniva seguito con disapprovazione, proprio perchè l’autorità centrale vi vedeva un possibile contropotere. Pochi sanno che Carlomagno emise una serie di decreti diretti a sopprimerle se non annientarle.
Ma il movimento sopravvisse, estendendosi dovunque. Vi fu anche rivalità tra i due tipi di corporazioni: i produttori spesso consideravano i mercanti come profittatori, e non sempre a torto. Un gruppo che si sentisse parte lesa in una certa questione, formava la sua corporazione per la bisogna.
Il sistema corporativo fu di una straordinaria vitalità e sopravvivenza. Durò quasi mille anni. Questa sopravvivenza può capirsi solo conoscendo i princìpi di base.
Il desiderio iniziale di pace e di giustizia, come quello di difesa e sicurezza, veniva dalla convinzione profonda che fosse possibile definire ed applicare la virtù della giustizia alla vita economica e sociale. Ciò perché nel Medioevo si era convinti della superiorità dei valori etici su quelli economici e commerciali. La nozione che la comunità fosse un insieme organico era generalmente accettata così come era accettato il principio secondo cui ognuno dovesse occupare il posto nella scala sociale dipendente dal tipo di contributo al bene comune.
Il principio di uguaglianza intraclasse e ineguaglianza interclasse assicurò pace, stabilità e giustizia per ben cinque secoli (X-XIV), non contando quindi lo sviluppo iniziale e la decadenza finale.
Due condizioni si imponevano perchè la cosa funzionasse: a) che tutti gli operatori economici con interessi in comune dovessero far parte di una corporazione, e b) che l’autorità competente ne riconoscesse la legittimità.
Ma la perfezione, ahimé, non è di questo mondo. Il sistema corporativo riservava sí giustizia, pace e libertà, ma solo ai suoi aderenti, escludendo da codeste desiderabili mire i precari, esclusi o per eccesso di manodopera, o per lo spirito di indipendenza di chi a malavoglia si sottomette a regolamentazioni di ogni tipo.[12] Erano, tutto sommato, monopoli e monopsonie[13]; non poche volte interessi corporativi entravano in rotta di collisione con quelli dei consumatori.
Dalla Corporazione al Sindacato
L’aforisma giuridico abusus non tollit usum decora i libri di testo delle facoltà di giurisprudenza, ma la sua applicazione pratica raramente decora i libri di storia. Le corporazioni erano da riformare ed erano certamente riformabili, ma Allarde e Chapelier le eliminarono come già visto.
I sovrani che sobillati dal potere finanziario accondiscesero a liberarsene, non si rendevano conto, o se ne resero conto troppo tardi, che le corporazioni espletavano una doppia funzione: controllo del potere regio, ma allo stesso tempo base di supporto popolare della monarchia, entrambi dal basso.
Sparite queste funzioni, era questione di tempo perchè le monarchie, sotto l’attacco implacabile della Rivoluzione, venissero diroccate l’una dopo l’altra, rimanendo solo quelle che accedettero ad asservirsi alla medesima, e ciò fino ai nostri giorni.
Per tutto il secolo XIX i lavoratori produttori di ricchezza combatterono, a volte fino allo spargimento di sangue, per ricuperare il diritto di associazione. Ci riuscirono, ma in forma del tutto diversa da quella originale, a causa della prestidigitazione marxista.
È di estrema importanza capire questa prestidigitazione, e chi ha letto Gesell sa perchè. I datori di lavoro sfruttavano sì i loro dipendenti, ma minimamente per conto proprio. Il grosso di quello che sarebbe dovuto andare nelle tasche dei lavoratori andava a finire in quelle di terratenenti e usurai, che Marx fece del suo meglio per occultare, e che Proudhon voleva esporre. Ecco il perchè della zuffa tra i due, che portò alla ribalta Marx e seppellì Proudhon sotto una coltre di disinformazione e di oblio.
Durante il tempo di questa lotta sindacale si rafforzava, malauguratamente, il potere del partito politico, cosicchè ai primi del XX secolo chi lavorava veniva ingannato sul doppio fronte della partitocrazia e del sindacalismo. I sindacati, invece di proteggere gli interessi di chi lavora, protessero quelli di chi si era affiliato a un certo partito.
Quando si scatenò Tangentopoli, nel 1992, le forze del lavoro non sospettavano che 20 anni dopo non solo si sarebbe svelato l’inganno, ma che il disvelo venisse sbandierato in Internet.
Le elezioni del 6 maggio 2012 hanno assestato una ulteriore mazzata ai partiti con la vittoria del 50% dei non-voti degli astenuti. Rimangono in piedi i sindacati, che sotto nomi diversi continuano a operare, senza eccezione, sotto lo stesso diktat comunista: “lavoratori” = massa informe; gli operatori economici indipendenti come professionisti, impiegati ecc. sono “sfruttatori”.
È arrivata l’ora di far rientrare il lavoro del popolo in politica senza intermediari, facendo risorgere, adattate ai tempi e rafforzate permanentemente, le corporazioni capaci di coprire tutte le categorie, così rappresentando il 100% della forza lavoro prima alle urne e poi in Parlamento.
Questo compito non sarà esente da difficoltà. Chi ha la memoria lunga ricorderà come nel 1944, quando i mirmidoni di Zio Sam entrarono a Roma, una delle prime cose che fecero fu di smantellare l’allora Ministero delle Corporazioni perchè “fascista”.
Strappare le Erbacce del Pregiudizio
Prima di perorare la causa, quindi, pregherei i lettori di liberarsi dal pregiudizio viscerale verso il termine “fascismo”, dovuto a una propaganda martellante di conio comunista che dura da più di mezzo secolo. Per farlo, si dia un’occhiata alla statua di Lincoln nell’omonimo monumento a Washington: si noteranno senza difficoltà due enormi fasci, uno sotto ciascuna mano del Presidente, identici a quelli romani adottati da Mussolini per il suo partito, e che da sempre sono simbolo dell’eterno aforisma “L’unione fa la forza”. “Conservare l’Unione” fu tanto lo scopo di Lincoln nella guerra civile 1861-65, quanto di Benito Mussolini dopo il disastro della Grande Guerra 1915-18.
Cominciamo a capire il perchè del fallimento dei due modelli che destarono più ammirazione negli anni 1920-1940: il salazariano e il mussoliniano. Evidenza della suddetta ammirazione è un documento, poco o nulla conosciuto, pubblicato dal governo irlandese nel 1943, dopo quattro anni di lavoro cominciati a marzo del 1939, sei mesi prima dello scoppio della guerra. Si tratta di un volume di 539 pagine, allestito con l'intenzione dichiarata di estendere il sistema corporativo all'Irlanda, e che dovrebbe essere lettura di rigore da parte di chi si interessa all'argomento. I modelli che vengono analizzati per primi sono proprio i sopraddetti.
        Il modello salazariano consisteva di 25 corporazioni, con funzioni puramente economico-sociali ma non politiche. Messe su in tre tappe, queste furono infine (1934) sottomesse a due gruppi governanti: un Consiglio e una Camera per le Corporazioni. Lo Stato rispettava la loro autonomia, ma non ne tollerava intromissioni in politica (ricordiamo che il Portogallo aveva avuto l'esperienza traumatica di ben 16 rivoluzioni armate in altrettanti anni (1910-26), e che Salazar era riuscito a bilanciare i conti dello Stato e a risanare l'economia a dispetto della recessione mondiale).
        Il modello mussoliniano consisteva di 22 corporazioni, ma con funzione dichiaratamente politica e con mutua intromissione non solo dello Stato, ma anche del PNF che piantava rappresentanti in ciascuna di esse.
        Anche in Italia le corporazioni furono implementate in tre tappe, l'ultima delle quali nel 1939, troppo tardi dunque per saggiarne il successo.
        La fine della guerra mise fine all'esperimento, che sarebbe però fallito lo stesso senza guerra. Oggi se ne possono vedere i perchè.
  1. I due nacquero dall'alto e non dal basso.
  2. I numeri sparuti di 25 e 22 non potevano rappresentare allora, né potrebbero oggi, le forze vive del lavoro di tutto un paese.
  3. L'assenza di azione politica corporativa in Portogallo fu tanto nociva quanto l'intreccio politico italiano: furono praticati proprio i due estremi da evitare.
  4. Nel sistema italiano vi fu di peggio: l'intromissione partitocratica. E' chiaro che se Corporazione e Partito sono istituzioni antitetiche, l'imporne le nozze non poteva che essere esiziale, e così fu.
  5. In Irlanda i partiti giudicarono la proposta ostile ai propri interessi, e nel 1943 erano abbastanza forti da stroncarla sul nascere.
        Ma le esperienze appena accennate dovrebbero essere salutari lezioni da imparare, non pie memorie storiche da lamentare e meno ancora da buttare nel dimenticatoio.
Sarebbe possibile attuare una riforma di tale portata senza violenza, rapidamente ed efficacemente? Mi si corregga se sbaglio. Ecco una proposta.
Restauro
L’articolo 49 della Costituzione della Repubblica recita:
“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.”
L’art. 49 non specifica il termine “partiti” con aggettivi qualificativi, per cui nulla osta a che si formino partiti rappresentanti le forze lavoro della nazione. Si avallerebbe così l’Art. 1 della Costituzione, che non più in vano reciterebbe: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.”
A livello professionale questa base esiste già sotto il nome di Ordini Professionali: Medici, Giuristi, Notai, Architetti, ecc. che hanno conservato i principi della corporazione medievale. Vanno aggiunte a queste le categorie agricole, manufatturiere e commercianti per completare la gamma delle forze lavoro. La spinta proverrebbe così dal basso, garantendo il 100% di rappresentanza.
Non sarebbe necessario fare tutto d’un colpo. Chi si organizza prima, si presenta prima, ma non senza aver sollecitato e assicurato un numero sufficiente di voti per mezzo di riunioni informative private dirette ad educare sulla natura e opportunità della rappresentazione politica corporativa diretta. Così interessi agricoli voterebbero per il partito agricolo, interessi manufatturieri per il partito industriale, ecc. Quanti partiti si formerebbero è difficile dire, ma l’importante è che la totalità delle forze lavoro sia rappresentata in Parlamento.
Fatto questo ci si presenterebbe alle elezioni. I rappresentanti, votati secondo lo schema esistente, otterranno i seggi corrispondenti. Alla prima elezione vi sarà competizione tra i vecchi partiti e i nuovi, molti dei quali sostituiranno quelli vecchi al conteggio. Alcuni vecchi partiti sparirebbero, come sono spariti alle amministrative del 2012.
Una volta in Parlamento, i rappresentanti delle forze lavoro asssumerebbero un comportamento antitetico rispetto ai partiti convenzionali, disdegnando privilegi ingiusti oggi a spese del contribuente, per godere di quelli, giusti, elargiti loro dai loro rappresentati, come convenuto in sede di riunioni informative. Non ci vorrebbe molto prima che i voti degli elementi esitanti andassero ai partiti di rappresentazione, finendo con lo spazzar via quelli parassitari.
Le corporazioni in Parlamento comincerebbero il loro mandato abrogando le leggi ingiuste accumulatesi per decenni, fino a un repulisti che restituisca al paese una sembianza di legalità a servizio della giustizia e del bene comune e non di interessi privati. E una volta spariti i partiti storici, non vi sarebbe più bisogno di sessioni parlamentari se non quando lo richiedesse il bene comune.
Dal lato positivo, i rappresentanti obbligherebbero il governo a riappropriarsi delle sue funzioni inalienabili, in primis quella monetaria stoltamente ceduta ad interessi finanziari in chiaro contrasto con quelli popolari. Una saggia riforma monetaria, spiegata nei dettagli altrove, renderebbe il ricorso al debito del tutto innecessario.
E i sindacati? Con le forze lavoro non solo rappresentate al 100%, ma anche con pieni poteri di controllo sull’Esecutivo, il sindacalismo perderebbe ogni raison d’être, e i perditempo si darebbero da fare per guadagnarsi il pane produttivamente.
Potrei continuare, e a lungo, ma mi fermo, non senza però fare un inciso sulla presenza deleteria dei partiti convenzionali nei municipi, dove non hanno fatto altro che impedire il buon governo delle amministrazioni comunali. Un sindaco eletto dalle forze lavoro locali và eletto a vita (o a rinunzia volontaria), stando a lui scegliersi i consiglieri dalle stesse forze in funzione del bene comune.
Mi si corregga se sbaglio, ma la cosa sembra fattibile hic et nunc, salvo l’intervallo di tempo necessario per la messa in pratica. Segue una breve lista di ulteriori vantaggi.
Pros senza Cons
Differenze etnico-tribali, che piagano anche l’Italia oltre che i paesi cosiddetti in via di sviluppo, verrebbero non eliminate (non si eliminano le macchie di un leopardo con un detergente), ma rese innocue da interessi lavorativi comuni.
        Non dovrebbe essere funzione del Parlamento legislare, per la semplice ragione che chi lavora non sa di legge, ma vuole buone leggi che garantiscano la giustizia. Il sistema partitocratico invece, già ai tempi di Belloc
“permetteva leggi di poco conto, intensamente provocanti e impopolari, e perciò causa di intenso e crescente attrito tra i vari strati della società"[14].
E se ciò era vero nell’Inghilterra di un secolo fa, in Italia la partitocrazia ha perduto ogni rapporto con la base, sviluppando un sistema parassitario che fa comodo a una caterva di
“signorotti (spesso mediocri, politicamente e moralmente), con i suoi vassalli, valvassori e militi, con i suoi servi, con i suoi privilegi e benefici, con le sue corvées, consentendo ai padroni dello Stato di edificare enormi fortune sottraendosi a una autorità superiore.”[15]
        In parlamento andrebbero uomini (e donne) consci di cosa vuol dire produrre ricchezza, che difficilmente confonderebbero con il denaro. E lo Stato la finirebbe di fare,come diceva H.L.Mencken (1880-1956)
“da sensale di saccheggi. Ogni elezione è una vendita all'asta anticipata di beni rubati[16].”
        Tangentopoli non sparirebbe (gli effetti del pomus noxialis saranno sempre tra noi), ma si ridurrebbe alquanto, dato che nessuna corporazione potrebbe mai detenere il potere detenuto oggi da un partito.
        La politica acquisterebbe il carattere che dovrebbe avere, cioè di servizio, e non di arrivismo o peggio. I deputati sarebbero uomini e donne già giubilati, cioè gente che avesse accumulato, durante una vita di lavoro, quella sapienza e quelle virtù che teste giovani e calde in generale non hanno. E per di più, pagati dalla corporazione e non dal denaro pubblico.
        La democrazia passerebbe dall'essere considerata come il summum bonum al di fuori del quale non vi è che pianto e stridore di denti, ad essere un controllo della autorità da parte dei cittadini. L’autorità eserciterebbe la potestas con il consenso (ragionato, perchè organico) dei secondi. Un tale controllo potrebbe coesistere con qualsivoglia forma di governo: monarchica, aristocratica o stricto sensu democratica, d'accordo con l'indole della nazione.
        Diceva Victor Hugo che nulla può fermare un'idea il cui tempo è maturo. Sarà questo il caso per un sistema corporativo? Chi vivrà vedrà.

Silvano Borruso
25 maggio 2012

[1] Cercles Concentriques, Les Editions du Chandelier, 1943 p.182.
[2] The Nameless War, Britons 1952 pp.19-20
[3] Filosofia politica  1839. Marzorati 1972 pp.227 e 232.Neretto di Rosmini
[4] The Party System, Stephen Swift 1911 p. 172.
[5] My Autobiography, Hutchinson & Co., Londra 1928 p.73. Ho ritradotto dall'inglese in mancanza del testo originale.
[6] La Grua, La Democrazia Corporativa, Misuraca Ed. 1976 p. 37
[7] + 2005. Specialista in questioni sociali, tra le quali il sistema corporativo.
[8] Op. cit., edizione in inglese ciclostilata fuori stampa.
[9] Millenaria non solo nella Cristianità, ma anche nell’antica Cina, il che mostra che codesta istituzione non appartenga ad una data cultura, ma alla natura sociale umana.
[10] Quadragesimo Anno n.97.
[11] Atti degli Apostoli cap. 23.
[12] Ne venivano esclusi anche i giudei, che si dedicarono alla manipolazione della moneta e al commercio di materiale non prodotto dalle corporazioni.
[13] Per chi non avesse familiarità con il termine, la monopsonia è il diritto esclusivo di compra.
[14] The Party System p. 170.
[15] La Grua, op.cit p.54
[16] Citato in American Opinion Novembre 1984

sabato 9 giugno 2012

Nuove adesioni al manifesto geolibertario

Agli iniziali sottoscrittori del manifesto geolibertario si sono aggiunti:

Gim Cassano (presidente di Alleanza Lib-Lab), 

Maria Grazia Cortese, 

Lucia Di Marco, 

Vittorio Emanuele Esposito (Nuovo Partito d'Azione, www.espositovittorio.blogspot.com, www.rivoluzionedemocratica.biz), 

Carlo Loi (libertarian, componente del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, pannelliano doc, www.radicali.it, www.radicalicagliari.it), 

Luigi Mazzotta (Radicale, laico, liberale, libertario, non violento, antiproibizionista, anticlericale, membro del Comitato Nazionale dei Radicali Italiani, nonché segretario dell'associazione Per La Grande Napoli), 

Giorgio Ragusa, 

Patrizia Varnier,

Alessia Villari.

mercoledì 6 giugno 2012

Secondo articolo di Nicosia nella Biblioteca geolib

È appena stato inserito nella Biblioteca geolib il secondo articolo di Fabio Massimo Nicosia: Il rifiuto del lavoro tra patrimoniale e reddito di cittadinanza, che potete leggere anche qui di seguito.

Pur non condividendolo in toto ritengo che l'articolo abbia molti meriti, tra i quali quelli per me centrali di sollevare le questioni relative a:

1) una forma di risarcimento nei confronti degli ultimi, degli esclusi;

2) una riforma complessiva del sistema fiscale verso uno Stato molto più leggero, quindi molto meno opprimente.


sabato 2 giugno 2012

Verso l'associazione geolib

Qui di seguito il testo dell'email che ho appena spedito a tutti coloro che a vario titolo hanno mostrato interesse verso il movimento geolibertario italiano.

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Amici geolib,

come vedete, anche se lentamente, siamo una realtà in crescita. Adesso è il momento di proporre ognuno di noi 2/3 battaglie, meglio se riforme concrete da proporre a livello nazionale, regionale o comunale. Cerchiamo di essere quanto più concreti e dettagliati è possibile. Se si tratta di riforme a livello nazionale, ad esempio, cerchiamo di scrivere un vero e proprio articolato di legge in modo che poi, ad esempio, possiamo proporre tale legge al parlamento come petizione o, se ne avremo la forza, come proposta di legge di iniziativa popolare.

Adesso è anche il momento di cercare ulteriori adesioni al manifesto geolibertario e di cercare i primi fondi (anche poche decine di euro dati da ognuno di noi possono servire). In cassa abbiamo già 50€. 20€ li ha dati Luigi Mazzotta (membro del Comitato Nazionale dei Radicali Italiani, nonché segretario dell'associazione Per La Grande Napoli), i restanti 30 € li ho messi io.

Chiunque a livello locale voglia e possa costituire dei club informali geolib lo faccia, con almeno 3 simpatizzanti che operano sullo stesso territorio (rione, comune, provincia, regione) e nessun altra formalità, almeno per adesso.

Chiedo cortesemente, a chi ancora non l'ha fatto, di darmi i suoi recapiti telefonici fissi e mobili, indirizzo postale e, per chi lo ha, il nome dell'account di messaggistica istantanea/VOIP (Skype,MSN,Gtalk o di altro tipo), per permetterci di comunicare più agevolmente.

Saluti cordiali


Massimo Messina
nonviolento.blogspot.com