mercoledì 16 settembre 2009

Luoghi in cui ho vissuto

Enna la ricordo piena di ipocrisia e chiusura mentale, ma ricordo anche con nostalgia le bellissime vedute, i monumenti, il castello, la torre. Insomma, Enna è bella, gli ennesi ancora non se ne sono accorti, troppo occupati a parlarsi male tra loro ed a parlare male degli altri, sempre stando ai miei ricordi. Niscemi è un altro comune tra i più brutti della Sicilia, ma alcuni tra i suoi cittadini sono ottime persone. Caltanissetta è città piena di ipocrisia ed interesse per l'apparenza più e prima che per la sostanza. A Catania, invece, mi trovo relativamente bene. L'importante è frequentare le persone giuste e quelle non mancano mai in una città più grande.

domenica 13 settembre 2009

La comunità di base Viottoli commenta la lettura biblica odierna

Dal sito www.viottoli.it
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“Ma voi...” - ma noi... Chi è Gesu’ per noi?
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Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: «Chi dice la gente che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti». Ma egli replicò: «E voi chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno. E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. Gesù faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: «Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà (Marco 8, 27-35).
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Marco è un buon catechista: ricostruisce e racconta la vita di Gesù in modo da stimolare crescita nella fede da parte della sua comunità; con il metodo classico dei maestri antichi: mette in bocca a Gesù la domanda e in bocca al “capo” dei discepoli la risposta giusta, come a dire “ecco quello che davvero dovete credere!”.
La domanda è quella che tutti e tutte ci siamo fatti/e più di una volta, a mano a mano che ci addentravamo nello studio della Bibbia: chi è Gesù per me? Nei tre Vangeli sinottici troviamo lo stesso brano in forma pressoché identica (Mt 16,13-23 e Lc 9,18-22): domanda e risposte che erano evidentemente molto importanti per le prime comunità. E per Gesù, come per chiunque, è importante essere riconosciuto: il riconoscimento ti fa star bene, ti dà la misura dell’efficacia di quel che stai facendo e seminando intorno a te.
Cosa stava facendo Gesù?
Stava insegnando, con gesti e parole, la condivisione e la responsabilità. Il capitolo 8 comincia con un’oceanica merenda, resa possibile dalla condivisione di quel poco che ciascuno ha con sé, e si conclude con l’invito a portare la propria croce personale sulle orme di Gesù, che ha portato la sua fino alla morte.
Essere il Messia, come professa Pietro al v 29, significa esattamente, per Gesù, portare la sua croce fino al Calvario, come Marco gli fa sintetizzare al v 31: “Molto soffrire, essere rigettato e ucciso...”. Questo è per lui cammino di responsabilità nella vita: non scendere a compromessi con il potere (“anziani, gran sacerdoti e scribi”), ma vivere con coerenza, a costo di rimetterci la vita.
Solo così sarà possibile “risorgere”, per lui e per noi: “Chi perderà la sua vita per causa mia e dell’evangelo la salverà” (8,35). Lui continua ad essere vivo, per noi e in noi, proprio perchè ha accettato le estreme conseguenze per la sua vita di profeta coerente del Dio dell’amore universale.
C’era chi, come al v 11, continuava a chiedere dei “segni”: chissà quanti, nella comunità di Marco, continuavano a nutrire dubbi e chiedere garanzie! I dubbi su Gesù erano più che giustificati, alla luce della fine spaventosa che aveva fatto. E nelle risposte che Marco mette in bocca ai discepoli e a Pietro mi sembra di poter cogliere anche l’eco di una “tentazione” permanente: Gesù viene identificato con un profeta famoso in Israele o con una “funzione salvifica”, quella del Messia, l’inviato di Jahve a riscattare e liberare Israele.
Forse, nelle intenzioni di Marco e dei sinottici, il ruolo assegnatogli serviva a rendere più autorevole Gesù agli occhi della comunità. Forse c’era già chi lo idealizzava, lo vedeva “di più” di quello che Gesù era stato veramente... e questo “di più” ha finito per imporsi e venir cristallizzato in dogmi assurdi (divinità, trinità, ecc...). In realtà, mi sembra, Gesù non è stato riconosciuto come tale. E la conferma la trovo nei vv 31-33: lo stesso Pietro è qualificato da Gesù come “Satana” perchè, non accettando la prospettiva della croce, dimostra di pensare secondo gli uomini, non secondo Dio.
Gesù non è quel Messia
La risposta di Marco ai dubbi che serpeggiano in comunità mette l’accento sulla relazione con Gesù, non sui segni eclatanti che ciascuno e ciascuna può pretendere e aspettarsi, come da un mago del circo. Gesù non è quel Messia che gli antichi profeti avevano vaticinato: la salvezza che porta al mondo non è la liberazione politica dal giogo romano, non è la supremazia universale del popolo “eletto”, non è nulla di egoisticamente umano.
E’ piuttosto la “salvezza” che Gesù annuncia a Zaccheo in Lc 19,9 (“Oggi la salvezza è entrata in questa casa”), dopo che lui ha annunciato la propria radicale conversione di vita: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e, se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto” (Lc 19,8). La salvezza sta nelle relazioni d’amore, di giustizia, di condivisione; non è un evento magico a cui si può accedere con gesti di culto individualmente egoistici.
“Ma voi...”: Gesù si aspetta un’altra risposta da chi lo accompagna da tempo e dovrebbe ormai conoscerlo abbastanza bene. Gesù punta sulla responsabilità individuale di chi vuole essergli discepolo o discepola: il Regno di Dio è dentro ciascuno/a di noi, cresce con la crescita del riconoscimento reciproco della comune universale figliolanza nei confronti di quel Dio che giuriamo di amare e che per Gesù è l’unico “oggetto” della fede.
Infatti “intimò loro di non parlare a nessuno di lui” (v 30), forse perchè, con l’idea che ne avevano, avrebbero reso un cattivo servizio alla causa del Vangelo. Non è Gesù l’oggetto della fede, non deve esserlo. Predicarlo come Messia, Salvatore, Redentore... ci porta, come è successo nella storia del cristianesimo, a farne un idolo da adorare invece che un maestro di vita da seguire e imitare, accettando di portare la nostra croce personale.
La croce abbiamo finito per appenderla ai muri e l’abbiamo trasformata in arma da brandire contro chi viene da lontano a disturbarci... altro che amore universale! Altro che relazioni di fratellanza universale nel nome del comune unico Padre! Se non ci riconosciamo tra di noi come fratelli e sorelle senza se e senza ma, è segno che non riconosciamo davvero Gesù: continueremo a presentarlo come Messia, Cristo, Salvatore..., ma la salvezza per noi non sarà ancora la giustizia imparata e praticata da Zaccheo.
E Gesù continuerà ad essere rigettato dagli anziani (presbiteri), dai gran sacerdoti e dagli scribi. Ci stiamo tutti e tutte in queste categorie: quando predichiamo noi stessi/e e le nostre dottrine, invece di metterci in ascolto sincero e vicendevole; quando pretendiamo la conversione di chi ci sta intorno invece di lavorare quotidianamente alla nostra; quando continuiamo a vivere come sacerdoti sul piedestallo invece di camminare a braccetto con chi non ha le nostre stesse risorse e i nostri stessi strumenti intellettuali e culturali... con chi ha pensieri diversi...
E’ bene che continuiamo a chiederci: chi è Gesù per me? E a risponderci con sincerità. Ma non nel chiuso del nostro io superbo e autosufficiente, bensì negli spazi aperti di ogni gruppo, di ogni comunità, guardandoci negli occhi e riconoscendoci vicendevolmente degni e degne di quella salvezza che Gesù ha praticato e predicato e che non ci aspetta nel paradiso dei morti, ma ci accompagna e ci spinge sui sentieri faticosi dei vivi, come erano quelli polverosi e sassosi della Palestina.
Se non ci riconosciamo universalmente fratelli e sorelle nella quotidianità della nostra vita, risulterà inutile e sbagliato quello che pretendiamo di conoscere di Gesù e del suo “evangelo: la buona notizia è messaggio di amore e di giustizia, non invito a praticare culti idolatri.
Beppe Pavan

venerdì 11 settembre 2009

Gli antimafiosi di professione

Sciascia ci indicò come rischio ciò che oggi è divenuto più che un rischio. Abbiamo infatti visto personaggi pubblici fare carriera politica in nome dell'antimafia o della lotta alla corruzione o della pulizia morale e così via, divendendo così inattaccabili agli occhi dell'opinione pubblica, ovvero divenendo idoli da idolatrare piuttosto che uomini con i quali condividere o meno le loro opere.

martedì 8 settembre 2009

Il proclama di Badoglio dell'8 settembre 1943

L'8 settembre 1943 il Capo del Governo maresciallo d'Italia Pietro Badoglio annunciò, tramite la radio, l'entrata in vigore dell'armistizio di Cassibile. Questo a seguire è il testo del proclama che lesse Badoglio.
«Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.
La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza»

venerdì 4 settembre 2009

Sofri nonviolento

Sofri ha scelto di rispettare socraticamente la legge fino in fondo, affermando la sua innocenza dall'accusa di essere un mandante di un omicidio ed assumendosi pienamente la responsabilià morale di avere pubblicamente condannato a morte Calabresi con la sua attività pubblicistica ed avendo scelto poi la nonviolenza. Mi pare che tutto ciò in Italia sia raro a vedersi ed implica già solo di per sé buon uso dell'intelletto e coerenza tra pensiero, parola e scelte di vita.
Smettiamo di valutare le cose, come solitamente facciamo da italiani, in base a moralismi accusatori o assolutori o vedendo tutti come se fossimo uguali. Diamo a ciascuno il suo e valutiamo con giudizio.