lunedì 28 settembre 2015

Il “diritto soggettivo” come privilegio tra concessione ed espropriazione

Di Fabio Massimo Nicosia

Nella nostra realtà c’è sempre qualcuno che rivendica vecchi e nuovi “diritti”: civili, sociali, pubblici, privati, di "cittadinanza".
La cosa è ben fatta, perché più diritti ci sono meglio è, senza andare tanto per il sottile, a condizione che ci si sforzi di rispettare il criteri di restrizione dell’universalizzazione; e ciò anche se si direbbe che, mentre alcuni “diritti” limitano l’invadenza dello Stato, altri, per come vengono attualmente configurati, l’incrementano, sicché, con riferimento a tale seconda ipotesi, si richiederebbe la riformulazione dell’approccio. In ogni caso, più diritti si pretendono, più si accresce il tasso di caoticità, quindi si tratta di cosa buona e giusta nella direzione dell’implosione del sistema.
Tuttavia, tali considerazioni di carattere estremamente pratico non possono impedirci di vedere i “diritti” per quello che sono in realtà e in termini di teoria generale: dei “privilegi”.

Non esiste infatti diritto che sia effettivamente universale, ciascuno di essi patendo deroghe ed eccezioni, diffuse o circoscritte.
In genere, per godere di “diritti”, occorre trovarsi in determinate condizioni stabilite dalla legge; ad esempio, per esercitare la professione di avvocato o di giornalista, in tale secondo caso almeno da noi, occorre essere iscritto a un ordine, per aprire un bar o un negozio di abbigliamento occorre una licenza commerciale, per votare occorre non essere stati esclusi dalle liste elettorali, per poter accedere a una carica pubblica occorre non essere stato interdetto dai pubblici uffici, per poter ricorrere in giudizio occorre essere “legittimati” all’azione, per costituire una società bisogna andare dal notaio, per godere della pensione di reversibilità occorre essere sposati, per poter legiferare bisogna essere eletti, per poter giudicare bisogna avere vinto il concorso di magistratura,  per poter esercitare legittimamente la violenza, fuori dai casi di legittima difesa e stato di necessità, bisogna essere poliziotti, per poter comprare una casa occorre avere diciotto anni, per non finire in manicomio bisogna essere considerati “sani” dagli psichiatri, per non finire in prigione occorre non trasgredire le norme che stabiliscono quali siano i “reati”, per guidare l’automobile occorre una patente, stipulare un contratto di assicurazione e pagare l’imposta di bollo, per non essere bombardati è necessario non appartenere a una nazione belligerante o, per meglio dire, aggredita, per costruire occorre una concessione edilizia, per continuare a godere dell’immobile è necessario pagare un’imposta, per non vedersela espropriata occorre pagare le altre tasse, per poter surrogare la maternità bisogna andare all’estero rischiando una sanzione, per potersi esprimere occorre non ledere o urtare la sensibilità di qualcuno pena a sua volta sanzione, per poter aiutare qualcuno a esercitare attività sessuale è obbligatorio non chiedere il benché minimo compenso, altrimenti si incorrerebbe nei reati di sfruttamento o favoreggiamento della “prostituzione”, per poter costituire un’associazione bisogna non essere fascisti o comunisti a seconda dei vari paesi, per godere di un reddito occorre “lavorare”, fosse pure con spreco di risorse per tutti, per portare un’arma occorre essere autorizzati, e si potrebbero fare infiniti esempi del genere più disparato: nessun diritto è cioè incondizionato, sicché si tratta sempre appunto di “privilegi” rispetto alla generalità degli individui, siano di volta in volta i “privilegiati” i più o i meno.
Un antispecista aggiungere poi che praticamente nessuno di questi “diritti” è riconosciuto all’animale non umano, benché questi sappia porre da sé proprio diritto, con la propria condotta, quando viene messo in condizione di farlo: e così un animale cerca di scappare dal camion che lo porta la macello quando il camion si ribalta, un cane morde una mano molesta e ognuno segna, come direbbe Paul Goodman, la propria “linea”, o il proprio “territorio”, come direbbe un etologo.
In altri termini, il “diritto soggettivo”, in ordinamenti giuridici come il nostro, è sempre e solo una concessione da parte dello Stato, e quando ne vengono meno i presupposti esso costituisce oggetto di una espropriazione.
 Si dirà che questa è una delle conseguenze nefaste del cosiddetto “positivismo giuridico”, ma in realtà non è che con il “giusnaturalismo” le cose cambino di molto: in effetti, premesso che esistono tanti e diversi giusnaturalismi, dimodoché i “diritti” conferiti da ciascuno sono differenti tra loro –in realtà molti giusnaturalismi, ad esempio di matrice cattolica, attribuiscono “obblighi”, ossia sottolineano con minuzia tutto ciò che “non si può fare”, piuttosto che conferire “diritti”-, gettando la materia nella più ampia incertezza, anche il giusnaturalismo  non fissa “diritti” indiscriminatamente, ma sempre demarca, tra le facoltà naturali, quelle che costituirebbero “diritto” da quelle che non andrebbero considerate tali.
Ad esempio, mentre i giusnaturalisti cattolici si dilungano nel precisare quali attività del corpo siano “consentite” (da loro) e quali no, in altri giusnaturalismi è nota e diffusa la dottrina per la quale, per divenire proprietario di un suolo, occorre averlo previamente “lavorato”, benché tale nozione sia ampiamente indeterminata.
In altri termini, i “diritti soggettivi” sono sempre in realtà “interessi legittimi”, o, per meglio dire interessi legittimati, dallo Stato o da qualche norma cosiddetta morale, arbitrariamente o più o meno ragionevolmente, fatta propria e unilateralmente “posta” da qualcuno, al di là di ogni retorica connessa alle etiche dell’argomentazione.
All’opposto, noi riteniamo che ognuno, con la propria condotta, crei il suo proprio diritto soggettivo, frutto dell’azione razionale e deliberata che esprima criteri, espliciti o impliciti, di scelta e di orientamento.
Si dirà che l’essere umano, in analogia in questo con il non umano, non sempre agisce razionalmente, ma spesso sulla base di istinti e di emozioni, che Vilfredo Pareto raccoglieva sotto le nozioni di azioni non logiche, sulla base di elementi che chiamava residui  e derivazioni. Tuttavia, essendo inaccessibile da parte dei terzi l’animo del soggetto, non siamo in grado di distinguere realmente le due ipotesi, e comunque anche l’azione non strettamente “razionale” concorre a conformare il mondo esterno e, così, a creare diritto oggettivo, oltre che soggettivo.
Che ciò possa dar vita a conflitti è evidente -anche se la teoria dei giochi ha individuato la possibilità di raggiungere  focal points  pacifici nelle interazioni-, ma non si direbbe che la situazione attuale risulti particolarmente armonica, sicché le ragioni per difenderla appaiono sempre di meno.

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