giovedì 30 luglio 2020

Sempre dalla parte della libertà individuale: Fabio Massimo Nicosia

È con gioia che accogliamo qui nel blog geolibertario quest’intervista che ci aiuterà a conoscere meglio il geolibertario Fabio Massimo Nicosia. Le domande sono di Emiliano Sellari.


Fabio, visto che non sei più giovanissimo e ne hai viste tante, siamo curiosi di conoscere il percorso della tua storia politica: da dove vengono le tue idee, a partire dalle origini?
Io da ragazzino ero di destra, per la semplice ragione che vengo da una famiglia di destra liberale e anticomunista, che mi spiegava che il comunismo, e quindi la sinistra, era la negazione della libertà. Siccome la mia indole era già libertaria, io ne avevo ricavato ingenuamente che più a destra si fosse andati, più libertà si sarebbe incontrata, e allora dalla scuola media fino al ginnasio ho simpatizzato per i movimenti di estrema destra, un po’ da anarchico individualista, però. Infatti a scuola, al Liceo Manzoni di Milano, parlo dei primi anni ’70, non mi opponevo al movimento degli studenti; anzi, partecipavo al collettivo di sezione in cui la faceva da protagonista il socialista libertario, poi noto giudice, Guido Salvini e, passivamente, alle assemblee; e rifiutai l’invito a entrare in un gruppo liberale di destra, del quale faceva parte anche il noto Beppe Severgnini, costituito in nome del “fare il culo ai rossi”: non me ne fregava nulla di oppormi ai rossi fin d’allora. Poi, quando a metà degli anni ’70 emersero i radicali con le loro lotte per i diritti civili, ossia quando non erano ancora una moda fucsia, capii di non essere affatto di destra, dato che l’MSI osteggiava duramente queste iniziative, divorzio compreso (anche se poi Almirante se ne pentì).
E poi?
E quindi sono diventato radicale, ma mi ritenevo partecipe al movimento giovanile degli anni ’70 anche solo per il fatto che andavo ai concerti rock e jazz dell’epoca, che erano cose da “compagni”. Seguendo le indicazioni di Pannella ho letto Piero Gobetti e Carlo Rosselli, quindi il liberalismo di sinistra e il socialismo liberale, approfondendo il pensiero socialista con i vari volumi del Cole, e questo mi ha portato rapidamente al pensiero anarchico, che trovavo molto congeniale alla mia inclinazione libertaria. Cominci allora a dirmi anarco-radicale, ossia un anarchico che condivideva la strategia gradualista dei radicali, ma si trattava di una mia costruzione che andava molto al di là di quello che i radicali non fossero effettivamente. Intanto frequentavo il circolo giovanile del mio quartiere, dove erano presenti ragazzi anarchici e dell’estrema sinistra, e in questa veste posso dire di avere partecipato, peraltro alla radicale, in modo totalmente nonviolento, al Movimento del 1977.
Poi dall’anarchismo classico di sinistra sei passato all’anarco-capitalismo? Oppure, come stanno esattamente le cose?
Le cose stanno che un giorno del 1979 ho scoperto la rivistina Claustrofobia, redatta interamente da Riccardo La Conca, la quale ha introdotto in Italia il cosiddetto libertarianism americano, utilizzando allora il termine “anarco-liberismo”. Siccome sono un tipo curioso, ho preso in considerazione anche tale ipotesi, che non vedevo necessariamente contrapposta all’altra, anche perché in senso lato vi sono elementi “liberisti” anche nella storia dell’anarchismo classico. Poi La Conca, adattandosi ai tempi, dava una versione abbastanza “di sinistra”, almeno nei toni, dell’anarco-liberismo. Entrai in contatto con lui e avemmo una lunghissima conversazione telefonica, ma non direi che mi abbia convinto su tutto. A me interessava soprattutto il rapporto tra modello anarchico e ordine del mercato, che veniva prospettato da La Conca come modello organizzativo alternativo a quello dello Stato, anche se lui stesso nutriva dubbi sulla questione della capacità del mercato di realizzare i cosiddetti beni pubblici: è un problema che l’ha sempre tormentato. Dopo di che questo anarco-liberismo uscì di scena, anche se uscì un bel libro di La Conca sul confronto tra democrazia e modello del mercato, “Democrazia, mercato e concorrenza”, pubblicato dalla casa editrice socialista SugarCo, in un periodo in cui il PSI stava coltivando, per merito del suo teorico Luciano Pellicani, l’esperienza culturale del socialismo di mercato.
Mi sembra che di fatto stai prendendo le distanze da questo anarco-liberismo, che ti interessava, ma al quale non hai mai davvero aderito.
Come ti dicevo, mi interessava la teoria del mercato come modello organizzativo alternativo a quello dello Stato, e su questo La Conca aveva colto nel segno. Senonché, vari anni dopo, fui investito da un ritorno in voga del filone all’inizio degli anni ’90 attraverso tre episodi, che riaccesero momentaneamente il mio entusiasmo: la pubblicazione in italiano del libro di Norman Barry sul liberalismo classico e il libertarianismo; un colloquio, durante un congresso radicale, con il prof. Raimondo Cubeddu (il quale tra l’altro mi suggerì di studiare Bruno Leoni) e l’apertura di un dibattito sull’anarco-capitalismo su A – Rivista Anarchica, con interventi di Guglielmo Piombini e Carlo Lottieri, con il mercatista non anarco-capitalista Pietro Adamo che replicava per conto della rivista.
Allora presi contatto con Lottieri e frequentai per qualche tempo il suo gruppo (con Piombini, Nicola Iannello e soprattutto Marco Bassani), fino ad arrivare a uno scontro molto forte verso la fine degli anni ’90. Io in realtà non mi inserii mai davvero nel gruppo, che era fin troppo compatto e omogeneo, dal quale, per dirla tutta, ero rimasto subito deluso per ragioni sia culturali che politiche. Io immaginavo un anarco-capitalismo “progressista” (alla La Conca), che nascesse dagli ambienti radicali, mentre loro erano leghisti, perché attribuivano rilevanza primaria, come lotta libertaria, alla secessione, che nei miei confronti non esercitava alcuna attrattiva per come declinata dai leghisti, che oltretutto erano reazionari sui diritti civili. E infatti i miei interlocutori anarco-capitalisti in quel periodo seguivano il paleo-libertarismo dell’ultimo Rothbard, ossia una declinazione conservatrice di quel pensiero. Oltretutto, io, che come giurista mi ero sempre dichiarato un realista, non potevo accettare il loro giusnaturalismo rozzo e ingenuo; non ritengo infatti Rothbard un filosofo del diritto di rilievo, ma solo un orecchiante: nessun giurista serio sarebbe mai giusnaturalista nel senso di Rothbard.
Per cui resi pubblico il mio distacco dal gruppo con un intervento pubblicato su A – Rivista Anarchica nel 1999, in cui però allargavo il discorso e iniziavo a parlare della Terra come res communis e non res nullius come ritenevano gli anarco-capitalisti, discorso che andavo maturando da alcuni anni, parlando addirittura di “comunismo di mercato”.
Però tu scrivesti anche che cercavi un anarchismo di centro tra anarco-capitalismo e anarchismo classico “comunista”, quindi non ripudiavi del tutto l’anarco-capitalismo.
Infatti salvavo la teoria del mercato, ma l’ethos sottostante doveva essere a favore degli svantaggiati e non indifferente alle loro sorti, mentre l’anarco-capitalista in genere è indifferente, o rimanda tutto alla beneficenza privata, con ciò rendendo il povero dipendente delle scelte del ricco. Invece occorreva trovare una soluzione di tipo diverso. Se vuoi poi ne parliamo.
Quindi tu in fondo attribuisci ancora importanza alla distinzione destra-sinistra? Però nel tuo libro “Il dittatore libertario”, in polemica con Bobbio, dichiaravi di volerla superare.
La superavo semplicemente non utilizzando quei termini: contrapponevo in un cerchio statalismo e antistatalismo, da una parte, e individualismo e comunitarismo dall’altro, senza preoccuparmi di stabilire quale fosse la destra e quale la sinistra, per evitare questioni nominalistiche. Perché uno potrebbe chiamare “sinistra” lo statalismo o viceversa, l’individualismo o il comunitarismo o viceversa, ma poco ce ne viene.
È vero invece che ho poi recuperato la distinzione, semplicemente perché ho accettato di utilizzare il linguaggio tradizionale. E allora ho accettato di dire, con il Rothbard di una volta, che il conservatore e l’autoritario stanno a destra, mentre il libertario, allora, dovrebbe stare a sinistra, salvo che poi arriva Hoppe, allievo di Rothbard, a fare l’apologia dello Stato patrimoniale e dell’ancient régime, ossia il contrario di quanto diceva Rothbard a quei tempi, per cui è il libertarian di quel tipo che si autopone all’estrema destra, anche per i valori tutelati. E allora io, con le mie idee, non posso che essere left-libertarian. Il che però non ha nulla a che fare con gli schieramenti politici ufficiali, dato che io detesto la sinistra ufficiale anche più della destra ufficiale, ma questa si tratta di una questione caratteriale mia, di una questione di pelle. Ad esempio, il linguaggio delle Sardine mi fa venire l’orticaria.

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