È con gioia che accogliamo qui nel
blog geolibertario quest’intervista che ci aiuterà a conoscere
meglio il geolibertario Fabio Massimo Nicosia. Le domande sono di Emiliano
Sellari.
Fabio,
visto che non sei più giovanissimo e ne hai viste tante, siamo
curiosi di conoscere il percorso della tua storia politica: da dove
vengono le tue idee, a partire dalle origini?
Io
da ragazzino ero di destra, per la semplice ragione che vengo da una
famiglia di destra liberale e anticomunista, che mi spiegava che il
comunismo, e quindi la sinistra, era la negazione della libertà.
Siccome la mia indole era già libertaria, io ne avevo ricavato
ingenuamente che più a destra si fosse andati, più libertà si
sarebbe incontrata, e allora dalla scuola media fino al ginnasio ho
simpatizzato per i movimenti di estrema destra, un po’ da anarchico
individualista, però. Infatti a scuola, al Liceo Manzoni di Milano,
parlo dei primi anni ’70, non mi opponevo al movimento degli
studenti; anzi, partecipavo al collettivo di sezione in cui la faceva
da protagonista il socialista libertario, poi noto giudice, Guido
Salvini e, passivamente, alle assemblee; e rifiutai l’invito a
entrare in un gruppo liberale di destra, del quale faceva parte anche
il noto Beppe Severgnini, costituito in nome del “fare il culo ai
rossi”: non me ne fregava nulla di oppormi ai rossi fin d’allora.
Poi, quando a metà degli anni ’70 emersero i radicali con le loro
lotte per i diritti civili, ossia quando non erano ancora una moda
fucsia, capii di non essere affatto di destra, dato che l’MSI
osteggiava duramente queste iniziative, divorzio compreso (anche se
poi Almirante se ne pentì).
E
poi?
E
quindi sono diventato radicale, ma mi ritenevo partecipe al movimento
giovanile degli anni ’70 anche solo per il fatto che andavo ai
concerti rock e jazz dell’epoca, che erano cose da “compagni”.
Seguendo le indicazioni di Pannella ho letto Piero Gobetti e Carlo
Rosselli, quindi il liberalismo di sinistra e il socialismo liberale,
approfondendo il pensiero socialista con i vari volumi del Cole, e
questo mi ha portato rapidamente al pensiero anarchico, che trovavo
molto congeniale alla mia inclinazione libertaria. Cominci allora a
dirmi anarco-radicale, ossia un anarchico che condivideva la
strategia gradualista dei radicali, ma si trattava di una mia
costruzione che andava molto al di là di quello che i radicali non
fossero effettivamente. Intanto frequentavo il circolo giovanile del
mio quartiere, dove erano presenti ragazzi anarchici e dell’estrema
sinistra, e in questa veste posso dire di avere partecipato, peraltro
alla radicale, in modo totalmente nonviolento, al Movimento del 1977.
Poi
dall’anarchismo classico di sinistra sei passato
all’anarco-capitalismo? Oppure, come stanno esattamente le cose?
Le
cose stanno che un giorno del 1979 ho scoperto la rivistina
Claustrofobia, redatta interamente da Riccardo La Conca, la quale ha
introdotto in Italia il cosiddetto libertarianism americano,
utilizzando allora il termine “anarco-liberismo”. Siccome sono un
tipo curioso, ho preso in considerazione anche tale ipotesi, che non
vedevo necessariamente contrapposta all’altra, anche perché in
senso lato vi sono elementi “liberisti” anche nella storia
dell’anarchismo classico. Poi La Conca, adattandosi ai tempi, dava
una versione abbastanza “di sinistra”, almeno nei toni,
dell’anarco-liberismo. Entrai in contatto con lui e avemmo una
lunghissima conversazione telefonica, ma non direi che mi abbia
convinto su tutto. A me interessava soprattutto il rapporto tra
modello anarchico e ordine del mercato, che veniva prospettato da La
Conca come modello organizzativo alternativo a quello dello Stato,
anche se lui stesso nutriva dubbi sulla questione della capacità del
mercato di realizzare i cosiddetti beni pubblici: è un problema che
l’ha sempre tormentato. Dopo di che questo anarco-liberismo uscì
di scena, anche se uscì un bel libro di La Conca sul confronto tra
democrazia e modello del mercato, “Democrazia, mercato e
concorrenza”, pubblicato dalla casa editrice socialista SugarCo, in
un periodo in cui il PSI stava coltivando, per merito del suo teorico
Luciano Pellicani, l’esperienza culturale del socialismo di
mercato.
Mi
sembra che di fatto stai prendendo le distanze da questo
anarco-liberismo, che ti interessava, ma al quale non hai mai davvero
aderito.
Come
ti dicevo, mi interessava la teoria del mercato come modello
organizzativo alternativo a quello dello Stato, e su questo La Conca
aveva colto nel segno. Senonché, vari anni dopo, fui investito da un
ritorno in voga del filone all’inizio degli anni ’90 attraverso
tre episodi, che riaccesero momentaneamente il mio entusiasmo: la
pubblicazione in italiano del libro di Norman Barry sul liberalismo
classico e il libertarianismo; un colloquio, durante un congresso
radicale, con il prof. Raimondo Cubeddu (il quale tra l’altro mi
suggerì di studiare Bruno Leoni) e l’apertura di un dibattito
sull’anarco-capitalismo su A – Rivista Anarchica, con interventi
di Guglielmo Piombini e Carlo Lottieri, con il mercatista non
anarco-capitalista Pietro Adamo che replicava per conto della
rivista.
Allora
presi contatto con Lottieri e frequentai per qualche tempo il suo
gruppo (con Piombini, Nicola Iannello e soprattutto Marco Bassani),
fino ad arrivare a uno scontro molto forte verso la fine degli anni
’90. Io in realtà non mi inserii mai davvero nel gruppo, che era
fin troppo compatto e omogeneo, dal quale, per dirla tutta, ero
rimasto subito deluso per ragioni sia culturali che politiche. Io
immaginavo un anarco-capitalismo “progressista” (alla La Conca),
che nascesse dagli ambienti radicali, mentre loro erano leghisti,
perché attribuivano rilevanza primaria, come lotta libertaria, alla
secessione, che nei miei confronti non esercitava alcuna attrattiva
per come declinata dai leghisti, che oltretutto erano reazionari sui
diritti civili. E infatti i miei interlocutori anarco-capitalisti in
quel periodo seguivano il paleo-libertarismo dell’ultimo Rothbard,
ossia una declinazione conservatrice di quel pensiero. Oltretutto,
io, che come giurista mi ero sempre dichiarato un realista, non
potevo accettare il loro giusnaturalismo rozzo e ingenuo; non ritengo
infatti Rothbard un filosofo del diritto di rilievo, ma solo un
orecchiante: nessun giurista serio sarebbe mai giusnaturalista nel
senso di Rothbard.
Per
cui resi pubblico il mio distacco dal gruppo con un intervento
pubblicato su A – Rivista Anarchica nel 1999, in cui però
allargavo il discorso e iniziavo a parlare della Terra come res
communis e non res nullius come ritenevano gli anarco-capitalisti,
discorso che andavo maturando da alcuni anni, parlando addirittura di
“comunismo di mercato”.
Però
tu scrivesti anche che cercavi un anarchismo di centro tra
anarco-capitalismo e anarchismo classico “comunista”, quindi non
ripudiavi del tutto l’anarco-capitalismo.
Infatti
salvavo la teoria del mercato, ma l’ethos sottostante doveva essere
a favore degli svantaggiati e non indifferente alle loro sorti,
mentre l’anarco-capitalista in genere è indifferente, o rimanda
tutto alla beneficenza privata, con ciò rendendo il povero
dipendente delle scelte del ricco. Invece occorreva trovare una
soluzione di tipo diverso. Se vuoi poi ne parliamo.
Quindi
tu in fondo attribuisci ancora importanza alla distinzione
destra-sinistra? Però nel tuo libro “Il dittatore libertario”,
in polemica con Bobbio, dichiaravi di volerla superare.
La
superavo semplicemente non utilizzando quei termini: contrapponevo in
un cerchio statalismo e antistatalismo, da una parte, e
individualismo e comunitarismo dall’altro, senza preoccuparmi di
stabilire quale fosse la destra e quale la sinistra, per evitare
questioni nominalistiche. Perché uno potrebbe chiamare “sinistra”
lo statalismo o viceversa, l’individualismo o il comunitarismo o
viceversa, ma poco ce ne viene.
È
vero invece che ho poi recuperato la distinzione, semplicemente
perché ho accettato di utilizzare il linguaggio tradizionale. E
allora ho accettato di dire, con il Rothbard di una volta, che il
conservatore e l’autoritario stanno a destra, mentre il libertario,
allora, dovrebbe stare a sinistra, salvo che poi arriva Hoppe,
allievo di Rothbard, a fare l’apologia dello Stato patrimoniale e
dell’ancient régime, ossia il contrario di quanto diceva Rothbard
a quei tempi, per cui è il libertarian di quel tipo che si autopone
all’estrema destra, anche per i valori tutelati. E allora io, con
le mie idee, non posso che essere left-libertarian. Il che però non
ha nulla a che fare con gli schieramenti politici ufficiali, dato che
io detesto la sinistra ufficiale anche più della destra ufficiale,
ma questa si tratta di una questione caratteriale mia, di una
questione di pelle. Ad esempio, il linguaggio delle Sardine mi fa
venire l’orticaria.
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